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Teatro Argentina 4 marzo – 3 aprile 2022
M Il figlio del secolo
uno spettacolo di Massimo Popolizio
dal romanzo di Antonio Scurati
una produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatro di Roma - Teatro Nazionale, Luce Cinecittà
in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina
durata 3 ore
GREEN PASS RAFFORZATO OBBLIGATORIO
Dopo il debutto al Piccolo Teatro di Milano arriva al Teatro Argentina di Roma dal 4 marzo al 3 aprile M Il figlio del secolo, uno spettacolo di Massimo Popolizio dal romanzo storico di Antonio Scurati.
I sei anni che sconvolsero l’Italia sotto la lente d’ingrandimento del teatro, diciotto attori raccontano l’ascesa di Mussolini dalla fondazione dei fasci di combattimento passando per la Marcia su Roma fino al discorso in Parlamento del 3 gennaio 1925 e al dilagare dello squadrismo.
Produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatro di Roma-Teatro Nazionale, Luce Cinecittà, in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina.
Adattamento in trentuno quadri del romanzo storico di Antonio Scurati M, lo spettacolo firmato da Massimo Popolizio ha una struttura circolare, che si apre con l’ultima battuta del libro per poi tornare a quella stessa fatidica frase pronunciata in Parlamento da Mussolini al momento di “addossarsi la croce del potere”: Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere.
Senza inclinazioni al compendio storico e riepilogativo, il testo dello spettacolo mira a portare in scena una rappresentazione plastica ed espressionista dell’affermarsi del fascismo.
Una storia, quella che instrada l’Italia al fascismo, che non si conosce mai abbastanza, in particolare quella dei sei anni che seguono la Grande guerra, con l’impresa di Fiume, il basculare del paese verso la rivoluzione socialista, la reazione e il dilagare dello squadrismo, la rocambolesca Marcia su Roma (di cui nell’ottobre 2022 ricorre il centenario) e l’inesorabile efficacia di una dottrina politica che si sottrae alle categorie di giudizio con l’azione violenta.
Protagonisti ne sono il fondatore del fascismo almeno quanto i suoi comprimari, che sentiremo esprimersi in terza e prima persona, Marinetti, D’Annunzio, Margherita Sarfatti, gli antagonisti Nicola Bombacci, Pietro Nenni e Giacomo Matteotti (colto anche nella commovente relazione epistolare con la moglie Velia), Italo Balbo, gli smobilitati della Grande guerra e tutta una nuvola di individui venuti dal basso. Diciotto interpreti in scena indossano i panni di circa ottanta personaggi. Protagonista è dunque l’intera comunità nazionale, “il paese opaco”, quasi che il fascismo non sia “l’ospite di questo virus che si propaga ma l’ospitato”.
M Il figlio del secolo è una vertiginosa immersione nella Storia, coacervo di innumerevoli storie, con il suo impressionante carico di rivolgimenti e di rovine, per riscoprire tra le pieghe del passato del nostro Paese le mappe per navigare il futuro, per capire – dunque – chi siamo e da dove veniamo. Costruito attorno al monumentale romanzo (premio Strega 2019) con cui Antonio Scurati, con taglio originale e coinvolgente, ripercorre l’ascesa al potere di Mussolini, lo spettacolo è stato riassemblato
in una nuova tessitura drammaturgica di trentuno quadri da Massimo Popolizio, nella duplice veste di regista e attore in scena. In una dialettica sapida e feroce che chiama in causa tanto figure cardinali quanto personaggi apparentemente “minori”, la caleidoscopica rappresentazione mutua il proprio registro stilistico dall’incandescente materia di partenza, in bilico fra incubo circense felliniano e impietoso processo. Un’intima pulsione brechtiana tesa ad aderire con l’arte alla complessità del reale percorre la sfida che coraggiosamente mette in campo la straordinaria compagnia di diciotto attrici e attori, e che può essere riassunta attraverso la lezione sulla molteplicità del Calvino “americano” (con la licenza di pensare al teatro quando si parla di letteratura): «L’eccessiva ambizione dei propositi può essere rimproverabile in molti campi d’attività, non in letteratura. La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là d’ogni possibilità di realizzazione». Grazie agli amici del Teatro di Roma e di Luce Cinecittà per aver condiviso questa avventura.
Claudio Longhi
Direttore del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Il Teatro di Roma, in coproduzione con il Piccolo Teatro di Milano e con Luce Cinecittà, ha scelto di affidarsi allo sguardo affilato e rigoroso, insieme straniante e partecipativo, dell’“opera mondo” di Antonio Scurati M Il figlio del secolo per provare a riflettere su una fondamentale fase della storia politica e culturale del nostro Paese. Il difficile e irrisolto rapporto che l’Italia ha sempre avuto – e continua ad avere – con la necessità di fare i conti con il proprio passato, e in particolare con determinati periodi oscuri, complessi e ambigui, diventa l’occasione per osservare, da vicino, attraverso la lente di un grottesco a tratti velenoso, a tratti drammatico, il folle sprofondamento nelle aberrazioni del regime fascista. Lungo i sei anni che vanno dal 1919 al 1924, l’accurata radiografia dei processi di massificazione non passa solo per il protagonismo di Mussolini, sdoppiato nelle copie anamorfiche su cui si regge la messa in scena, ma anche per tutta una selva di presenze che ritraggono, grazie alla forza espressiva e alla versatilità di un nutrito cast di attrici e attori, lo smarrimento, e la conseguente parabola della caduta, di una comunità intera.
Gianluca Sole
Commissario Straordinario del Teatro di Roma - Teatro Nazionale
«Forse il fascismo non è il virus che dilaga, ma il corpo che lo accoglie». Queste parole di M., l’opera di Antonio Scurati che gli è valsa il Premio Strega 2019, sono uno dei motivi che ci hanno spinto a co-produrre la sfida lanciata da Massimo Popolizio, insieme al valore testimoniale della nostra memoria storica e al rapporto tra teatro e letteratura. Se si osservano le vicende dell’attualità, quelle parole, vecchie ormai di un secolo, continuano a produrre sinistre risonanze fattuali. Si è assaliti dal dubbio che il virus del fascismo non sia mai davvero debellabile, e che, sotto la cenere della democrazia i suoi tizzoni continuino a covare il calore capace, da un momento all’altro, di riattizzare i focolai dell’intolleranza e della prevaricazione. L’esercizio della memoria è l’unica difesa dai virus del passato. Cinecittà-Istituto Luce ha ritenuto opportuna la sua partecipazione a questo progetto in coerenza rispetto alla sua funzione di custode della memoria collettiva di questo Paese. Lo spettacolo di Popolizio è in sintonia anche con una delle missioni di Cinecittà. Non solo archivio di immagini e laboratorio cinematografico, ma luogo di produzione culturale multidisciplinare così com’è nella natura della settima arte, che è fatta anche di recitazione, di musica con le colonne sonore, di scrittura con le sceneggiature e di arte e fotografia. L’ambiziosa riduzione teatrale dei due libri di Antonio Scurati conferma quanto proficuo e felice possa essere il proposito, che Cinecittà condivide e promuove, di far dialogare tra loro le diverse espressioni artistiche.
Chiara Sbragia
Presidente Cinecittà SpA
La commedia pericolosa di un trasformista di nome M
Conversazione con Massimo Popolizio
(dal programma di sala dello spettacolo, a cura dell’Ufficio Edizioni del Piccolo Teatro di Milano)
Massimo Popolizio, perché hai portato in scena M Il figlio del secolo?
Avevo incontrato Antonio Scurati più volte, prendendo parte ad alcune iniziative dedicate a M il figlio del secolo, all’epoca della pubblicazione del libro. In una di quelle occasioni, gli avevo chiesto di lavorare insieme a un progetto ambientato nel 1910: la storia di un macellaio romano che si fa chiamare Giulio Cesare, e che vive e si atteggia alla maniera di Benito Mussolini. Scurati aveva controbattuto proponendomi di adattare per il teatro il suo stesso romanzo, operazione che mi pareva sinceramente complessa, data la mole dell’opera letteraria. Ci ho riflettuto per un mese, ne ho anche parlato con alcuni amici, Franco Branciaroli e Umberto Orsini, che mi hanno subito incoraggiato a buttarmi nell’impresa. Venivo da due esperienze teatrali come Nemico del popolo di Ibsen e Furore dal romanzo di Steinbeck, avevo letto M e sentir risuonare le parole di alcuni leader contemporanei mi ha fatto pensare che quella proposta, nata per caso, rispondesse invece a una precisa necessità: così ho deciso di farlo.
Oltre ottocento pagine da adattare per la scena. Come hai fatto?
È un testo del quale tutti conosciamo più o meno “la storia”, ma che non è né un giallo, come Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda, né una saga familiare come I fratelli Karamazov di Dostoevskij, per citare due spettacoli, tratti da romanzi, nei quali ho recitato diretto da Luca Ronconi. Nel nostro caso, quale doveva essere il punto di vista?
Mai come in questo caso, la chiave di tutto sta nel montaggio. Quando si affronta uno spettacolo del genere, non con un semplice “adattamento da”, come si farebbe per il cinema o per una serie tv, ma ricreando dialoghi e personaggi, sempre e soltanto con le parole del libro, ne nasce un oggetto a sé. Questo nuovo prodotto ha le sue specifiche necessità: lo si recita tutto di seguito? Lo si divide in tempi? Lo si scandisce in capitoli diversi da quelli del libro? La versione che il pubblico vedrà credo sia l’undicesima. Ci sono arrivato con il metodo che solitamente applico a questo tipo di spettacoli: rileggo il libro al contrario, dal fondo all’inizio, sottolineando tutto quello che teatralmente mi pare valido; poi di nuovo e di nuovo, una seconda, una terza, una quarta volta, sempre togliendo, riducendo e rimontando, fino a quando ottengo una sorta di enorme bobina di parole e di frasi, da attribuire ai personaggi storici – Sarfatti, Mussolini, Matteotti, Balbo, Nenni… – ma anche a quelli inventati – spazzino, reporter, carabiniere, operaia…
Ne ho ricavato una creazione a sé, suddivisa in quadri che presentano anche titoli diversi da quelli del romanzo originale. Essi talora identificano il personaggio protagonista – D’Annunzio, Sarfatti, Bombacci – in altri casi sottolineano una situazione o un atteggiamento. Faccio un esempio: quando Mussolini si reca a Firenze, per incontrare il pubblico nella platea di un teatro, e strega i fascisti in sala, presentandosi sudato e macchiato di grasso, con indosso una tuta da aviatore, abbiamo chiamato l’episodio “Il teatrante”. M si comporta qui come Petrolini quando impersonava Nerone: recita una parte. Queste invenzioni, su cui si basa la divisione in trentuno quadri cui siamo approdati insieme a Lorenzo Pavolini, sono funzionali a dare un’idea del percorso di Mussolini dal 1919 al 1924, senza però fare un Bignami del fascismo. Il pericolo da evitare era una riduzione in cui a comandare fosse solo l’esigenza di stare nei tempi sensati di uno spettacolo teatrale: la nostra sfida è stata scegliere di percorrere alcuni dei filoni narrativi del romanzo e di mantenerci dentro quei confini.
Come hai lavorato, con gli attori, sui personaggi?
Come sempre faccio, ho tentato di avere più attori possibile. Il mio imprinting, quando da ragazzo ho iniziato a recitare, è stato lavorare in compagnie enormi, dirette da Ronconi. Il grande investimento del Piccolo Teatro su questa produzione mi ha permesso di avere diciassette attori, diciotto includendo me, alcuni con maggiore, altri con minore esperienza. Tranne Tommaso Ragno, che impersona Mussolini – mentre io, che sono l’uomo del varietà, ne incarno l’aspetto più istrionico – gli altri fanno tutto.
Sono professionisti di età diverse, perché sono convinto che il teatro non sia mai generazionale: ho avuto la fortuna di iniziare accanto ad attori di sessanta, settanta, settantacinque anni e penso che gli allievi e gli attori debbano mescolarsi, che non debbano mai esserci compagnie di soli ventenni o trentenni, o, peggio ancora, con un solo protagonista “maturo” attorniato da giovanissimi: credo sia necessario intrecciare le esperienze.
Nel caso dei ruoli di M, non parlerei di personaggi, ma di figure. Quando mi sono avvicinato al testo, non sapevo bene cosa fare, ma mi era chiarissimo cosa non fare. Non doveva essere qualcosa che assomigliasse a un documentario di Rai Storia, perché Paolo Mieli è più bravo di me, né era quello il nostro obiettivo; né potevo andare nella scia di un film di Bertolucci o di Florestano Vancini, dove tutti gli attori sono truccati in modo da rappresentare i personaggi come iconograficamente la storia ce li ha consegnati. Io per primo ho alle spalle un’interpretazione cinematografica di Mussolini in Sono tornato (il film di Luca Miniero del 2018, n.d.r.) quindi comprendo quali siano le difficoltà, e i limiti, di stare in scena con il cranio rasato, gli stivaloni, la camicia nera e il fez… Qui abbiamo trentuno quadri, dall’andamento estremamente dinamico, coinvolgente e rapido. Gli attori, che sono il nutrimento, la linfa di questa operazione, nel loro continuo passarsi il testimone, devono restituire l’idea di una specie di furore. Quello che ho imparato da Luca Ronconi, perché era l’unico regista che lo sapeva fare, è la capacità di creare in palcoscenico un primo piano, un campo lungo, un campo medio, uno sfondo. Quando si allestisce un’opera non nata per il palcoscenico, che comporta battute in terza persona, la chiarezza è fondamentale per mettere il pubblico in condizione di seguire. Tale nitidezza è frutto di un continuo movimento di macchina, con alcuni attori che vengono in primo piano, a pronunciare le loro battute, e si portano quindi all’attenzione dello spettatore, mentre altri escono dal fuoco; chi in quel momento non sta recitando, ma è comunque in scena, non deve costituire un elemento di distrazione o di disturbo. Pertanto, il palcoscenico – soprattutto quello di un teatro difficile da gestire come lo Strehler – va impiegato in tutto il suo potenziale: mai come in questo caso, lo spazio, e quindi la scenografia di Marco Rossi, è parte integrante della scrittura drammaturgica.
Ho sempre pensato, e ancora di più questa idea si è confermata in me nel corso delle prove, di trovarmi davanti a un piccolo Brecht italiano: anche Brecht divideva i suoi testi in quadri, anche lui impiegava il varietà, i cori, le canzoni, determinati movimenti, per raccontare le sue storie. Questa forma “brechtiana” mi ha permesso di scegliere una chiave grottesca per uno spettacolo che non mai è ideologico, ma sempre teatrale. Faccio l’esempio del quadro intitolato “Arditi”: Mussolini, con in testa un cappuccio da boia, pronuncia la frase “Siamo cento persone scarse. Siamo pochi e siamo morti”, prendendo atto di dover scrivere il futuro del suo movimento con un manipolo di gente raccogliticcia. Il personaggio che vediamo in scena è un boia, ma non è semplicemente il “cattivo”, il vilain: è un manipolatore, è mercuriale, mutevole, intelligente, ammiccante, fragile, con le donne ha rapporti completamente distorti. L’idea stereotipata dell’uomo muscolare non è stata mai presa in considerazione, perché già la conosciamo. Mussolini non appare mai, né in video, nelle proiezioni curate da Roberto Frati, né in scena: Tommaso Ragno e io ne pronunciamo sempre le parole in terza persona.
Hai scelto un approccio essenziale e astratto per lo spazio, ma invece hai voluto costumi storicizzati. Come mai?
Dal momento che non abbiamo optato per un’adesione iconografica degli attori ai rispettivi personaggi, mi pareva davvero troppo metterli in scena in abiti contemporanei. Inoltre, non sono il tipo di regista capace di trasferire un testo a un’altra epoca: dentro a quel contenitore, a quella scenografia, era fondamentale inserire personaggi con un certo tipo di abiti. Inoltre, i costumi di Gianluca Sbicca, estremamente curati e preziosi nella fattura, aggiungono valore allo spettacolo.
Parliamo anche del lavoro che avete fatto sul suono e sulla scelta musicale.
Il procedimento è molto simile a quello adottato nella scrittura drammaturgica: sono partito da una prima libreria con oltre seicento brani, andando poi a selezionare e a individuare quelli adatti a ogni singolo momento.
Non nascondo che spesso è stata la musica a indirizzarmi sulla strada giusta per risolvere una scena: mi sembrava che certe cose funzionassero meglio se intrecciate a un brano d’epoca, oppure del repertorio barocco, a una musica tecno, a un tango, a un valzer, a una mazurka, cui si aggiungono rumori, tuoni, suggestioni. Uno spettacolo teatrale, per il pubblico contemporaneo, necessita di una grande cura visiva e sonora, a maggior ragione per me, che vengo da una scuola dove, già vent’anni fa, un professionista come Hubert Westkemper impiegava effetti e sonorizzazioni particolari. Con Sandro Saviozzi abbiamo costruito una rete, un tappeto sonoro, funzionale alla drammaturgia e al lavoro degli interpreti. I nostri copioni – il mio, quello dei miei colleghi, quello dei fonici – sono veri e propri spartiti, all’interno dei quali sta poi a noi attori convogliare la giusta energia e il corretto flusso emotivo.
Con quali sensazioni vorresti che il pubblico uscisse dallo spettacolo?
Con una metafora un po’ prosaica, direi che lo spettacolo è come una lasagna: può essere “mangiato” a strati. Contiene qualche omaggio teatrale e alcuni riferimenti cinematografici; vi sarà chi li riconoscerà e ne sarà contento, ma non è indispensabile per “entrare” nello spettacolo. Qualcuno forse potrà risentirsi, perché i socialisti ci fanno una bruttissima figura, oppure perché Mussolini è stato trattato male, o forse perché non lo è stato abbastanza. Potrà apparire come un modo insolito di leggere la storia, ma non credo lasci indifferenti, il che mi pare già un bel risultato.
M IL FIGLIO DEL SECOLO
uno spettacolo di Massimo Popolizio, tratto dal romanzo di Antonio Scurati
collaborazione alla drammaturgia Lorenzo Pavolini
scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi, suono Sandro Saviozzi
video Riccardo Frati, movimenti Antonio Bertusi (manca su sito TDR ma è in cartella stampa Piccolo)
con Massimo Popolizio e Tommaso Ragno
e con Sandra Toffolatti, Paolo Musio, Raffaele Esposito, Michele Nani
Tommaso Cardarelli, Alberto Onofrietti, Riccardo Bocci, Diana Manea
Michele Dell’Utri, Flavio Francucci, Francesco Giordano
e con Gabriele Brunelli, Giulia Heathfield Di Renzi
Francesca Osso, Antonio Perretta, Beatrice Verzotti
produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatro di Roma - Teatro Nazionale, Luce Cinecittà
in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina
orari
prima ore 20.00, martedì e venerdì ore 20.00,
mercoledì e sabato ore 19.00,
giovedì e domenica ore 17.00
giovedì 17 e giovedì 31 marzo ore 20.00
lunedì riposo
biglietti da € 40 a € 25
Informazioni e prenotazioni Tel. 06 684000314 - biglietteria@teatrodiroma.net
Largo di Torre Argentina, 52 - 00186 Roma
Cartella stampa a cura dell’Ufficio stampa del Piccolo Teatro di Milano.
Ufficio stampa per il Teatro di Roma Francesca Venuto ufficiostampa@teatrodiroma.net
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