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Sulla coda del film, in una breve e significativa scena, l'operaio Lulù Massa girovaga per la sua casa catalogando a uno a uno gli oggetti lì presenti e recitando una personale, e straniante, litania domestica: a ogni cosa risponde un costo, a ogni costo delle ore lavoro. Mutatis mutandis, nella sua concisione quella scena, dalle tinte bluastre e dai toni buffi, parla molto alla (e della) nostra epoca dominata dal consumo ultraveloce - espresso e spersonalizzante grazie al potere della rete -, affetta da una sindrome bulimica permanente mentre, al contrario, è risucchiata in vuoto ideologico spinto. Bizzarro combinato di stili, con una sceneggiatura che qua e là strizza l’occhio alla commedia all'italiana ma si lascia altresì tentare, nel suo impasto cromatico dall’estremismo espressionista, il film di Petri, scandito dalla musica dura e pervasiva di Ennio Morricone, ha il merito di aver provato ad abbozzare una narrazione dell'Italia attraverso il lavoro, oltre i furori utopici di quegli anni febbrili che seguirono il Sessantotto.
Riattraversarne la vicenda con lo sguardo disilluso del nostro presente, a quasi dieci anni dall'ultima crisi economica mondiale, significa riflettere su quanto quell'affresco grottesco immaginato da Petri nel 1971 sia più o meno distante. Un tempo, il nostro, post-moderno e post-ideologico, che fatica a riconoscere in modo netto i tratti di una qualsivoglia “classe operaia”, dispersa e nascosta dietro gli innumerevoli volti del lavoro “flessibile”. Se dunque l'inferno umido e grasso della fabbrica cottimista dell'operaio Lulù Massa appare ben lontano dagli asettici e sterilizzati spazi industriali o dai lindi uffici dei precari odierni, lo stesso non è del ritmo ossessionante e costrittivo di una quotidianità, allora e ancora oggi, alienata.
Claudio Longhi
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