documenti collegati
Un resoconto e una nota personale.
Alla memoria di
Pier Paolo Pasolini,
Luca Ronconi,
Franco Quadri
maestri d’arte e di vita
Era la fine di maggio 2014, quando, a poche settimane dal mio insediamento come direttore al Teatro di Roma, io e Massimo Popolizio ci incontriamo. Nel desiderio comune di lavorare insieme, Massimo mi propone di portare il romanzo di Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, sul palcoscenico del Teatro Argentina. Accolgo con entusiasmo la proposta (anche perché fra i compiti che ho sentito di dover assolvere c’è quello di far crescere ancor più una nuova generazione di registi) e già fantastichiamo dell’energia di quel piccolo popolo di ragazzetti dalla vitalità disperata ritratto in presa diretta nel romanzo, esplodere sul palcoscenico nudo del Teatro Argentina – a recitare la nuda povertà delle borgate romane, non più campagna e non ancora città – per irradiarsi in sala, in platea, e su su fino all’ultimo anello di palchetti, travolgendo come un’onda gli spettatori, sfiorandoli con la loro dolcezza furiosa, la loro impulsiva esplorazione del mondo. Lo dico: riandando a Ragazzi di vita e conoscendo Massimo, immaginai esattamente lo spettacolo che oggi vede la luce. E provo gratitudine verso quest’arte antica e ancora bella e potente come poche altre che è il teatro.
In quelle prime settimane così fervide di idee e di voglia di contribuire ad arginare il collasso della Capitale, era già il tempo della costruzione, con Fabrizio Arcuri, del Ritratto di una Capitale – Ventiquattro scene di una giornata a Roma: quella inattesa apparizione della figura di Pasolini nel cantiere del nuovo corso del Teatro di Roma l’avvertii come premonitrice di qualcosa di più grande e complesso; percepii Pasolini, seppure in modo sfuocato, come “figura” e “soggetto” che avrebbe accompagnato e quasi guidato il nostro lavoro di indagine su Roma, la città smarrita del presente e quella dei primi anni Cinquanta ritratta nel romanzo d’esordio dell’artista e intellettuale di Casarsa. Si va componendo, così, per vie naturali, un progetto a lui dedicato che attraversa le tre stagioni fino a oggi da me guidate: un progetto che dà spazio ai romanzi, il primo, Ragazzi di vita (pubblicato con forte adesione da Livio Garzanti, nel 1955) e l’ultimo, Petrolio, rimasto incompiuto e pubblicato postumo (da Einaudi nel 1992), alla poesia, al teatro. Il filo rosso comincia a tessere una trama a partire dalla lettura cesellata e potentemente espressiva di Fabrizio Gifuni di Ragazzi di vita, il 2 novembre 2014, una domenica mattina (a testare i nuovi cicli culturali che faranno del Teatro Argentina una vera e propria agorà civile e culturale): il teatro strapieno all’inverosimile, con una temperatura emotiva così tangibile, certificava di un rinnovato bisogno di cultura, di una comunità disorientata ma pronta a ricomporsi in polis alla prima proposta di qualità. La felicità di quella domenica mattina, grazie all’abituale lavoro rigorosissimo e certosino di Gifuni sul testo e sulla recitazione (già audiolibro per Emons), ci rassicura che la strada che stavamo tracciando era giusta e che ci avrebbe aiutato, attraverso Pasolini, a mantenere ferma la bussola del senso delle nostre azioni.
Slittato in avanti il progetto di messa in scena di Ragazzi di vita (per il successo e la ripresa della Lehman Trilogy, ultimo capolavoro di Ronconi, interpretato dallo stesso Massimo Popolizio e che abbiamo voluto far seguire a questo nostro Pasolini), è la stagione 2016/2017 a essere scandita da episodi dedicati al poeta. Nel febbraio 2015, il ministro Dario Franceschini istituisce un comitato per ricordare il poeta a quarant’anni dalla sua barbara uccisione e mi invita a farne parte. Alla prima riunione, in via del Collegio Romano, illustro alla presidente Dacia Maraini e ai colleghi arrivati da mezza Italia, la struttura del nostro omaggio, un po’ ambizioso, certamente articolato e ne spiego le ragioni: Roma, la Capitale, la città adottata e così tanto amata da Pasolini, scena perfetta di quell’intreccio così speciale e raro di arte e vita che lo ha connotato, non poteva esimersi dal ricordarlo in modo ampio, di restituircelo un poco, e il Teatro Pubblico della Capitale aveva il compito di esserne il capofila.
L’omaggio dedicato al “poeta corsaro” è un viaggio ripartito il 2 novembre 2015 con la maratona di interpretazioni di brani di Petrolio: chiesi a Dacia Maraini l’impegno gravoso, ma che soltanto lei poteva assolvere, di scegliere e cucire insieme pagine da quel magma potente e unico, summa di una vita e di una poetica; e all’attore e regista Francesco Siciliano di supportarmi nel coinvolgimento di diverse generazioni di attori e attrici, e soprattutto di curare la regia dell’accadimento. Una lunga fila si snodava sul piazzale davanti il teatro sin dal pomeriggio, aprimmo le porte alle 18 e alle 19 demmo l’avvio a una serata che si rivelò davvero straordinaria, su un palcoscenico nero petrolio, con i 23 artisti che avevano accolto il nostro invito aderendovi con convinzione militante: Urbano Barberini, Giorgio Barberio Corsetti, Bernardo Bertolucci, Francesca Benedetti, Paolo Bonacelli, Ascanio Celestini, Ninetto Davoli, Giuliana De Sio, Piera Degli Esposti, Abel Ferrara, Iaia Forte, Massimo Foschi, Paolo Graziosi, Lino Guanciale, Monica Guerritore, Roberto Herlitzka, Roberto Latini, Lorenzo Lavia, Luigi Lo Cascio, Antonio Piovanelli, Massimo Popolizio, Francesco Siciliano, Carla Tatò. Pier Paolo Pasolini – Testimone carnale è stata una serata vivida e indimenticabile per la ferocia, l’inquietudine, il mistero della scrittura e le interpretazioni così diverse, potenti, generose, efficaci, a comporre un coro a staffetta, applaudite da una folla straripante e partecipe.
Il programma di spettacoli è proseguito con l’originale partita di pallone teatralizzata da Giorgio Barberio Corsetti, Pier Paolo!, “giocata” da due vere squadre di calcio, Liberi Nantes e una seconda composta da rifugiati, nel campo di Pietralata a Roma (31 ottobre/1 novembre 2015; ma avevamo visto già una prima prova al festival Ric di Rieti l’estate prima). Una drammaturgia che montava brani di sceneggiature dei film, brani letterari e liriche stendendola sui due tempi dell’incontro, sul gioco vero, sulla partecipazione e il tifo del pubblico sugli spalti a recitare se stesso con bell’effetto di straniamento e clima di festa che sarebbero piaciuti a Pier Paolo. Qualche giorno prima, al Teatro India, è andata in scena la “cantata” commissionata a Giovanna Marini, Sono Pasolini, una composizione per il Coro Favorito della Scuola Popolare di Musica di Testaccio e una voce recitante, Enrico Frattaroli, curatore anche dalla mise en espace. Giovanna, alla quale dedicammo un ritratto omaggio a più capitoli, al tempo della mia direzione del Teatro Eliseo (non dimenticherò mai l’abbraccio con l’emozione di tutti i presenti fra Giovanna e Pietro Ingrao, nel camerino delle star del teatro di via Nazionale), e da me sempre seguita e amata, ha composto un bellissimo oratorio moderno che mescola la ricchezza del pensiero e della poesia pasoliniana, attingendo alle Lettere luterane e alle poesie in friulano della Meglio Gioventù. Poi è arrivato il turno del Vantone, ovvero la traduzione di Pasolini nel “suo” romanesco del Miles di Plauto, diretto da Federico Vigorito, con Ninetto Davoli, l’amico di sempre (8/13 marzo 2016), una rivisitazione coerente con lo sguardo antropologico e l’osservazione partecipante al mondo dei diseredati, con Efeso trasferita in una borgata romana. Dopo Pasolini ha rappresentato invece la riconciliazione di una generazione plurale, attraverso un “rito” assai intimo, in una roulotte parcheggiata in un angolo fra i capannoni dell’India, in un paesaggio tipicamente pasoliniano, per sei spettatori alla volta, costruito dai bolognesi Teatro delle Ariette (17/22 maggio 2016), fra visioni di frammenti di film pasoliniani, un banchetto contadino e fili di luci festose, in uno spettacolo immerso in un mutismo quasi metafisico. Pasolini è nato a Bologna, prima di trasferirsi a Casarsa, nel Friuli materno. Fra gli altri sentimenti, è stato lo struggimento, forse, quello che ha maggiormente attraversato le proposte finora ripercorse.
Poi è stata la volta di Calderón (20 aprile/8 maggio 2016, al Teatro Argentina, e poi a Bologna e Firenze), una delle cinque “tragedie” scritte per il teatro da Pasolini, il quale riscrive La vita è sogno di Calderón de la Barca ambientandolo nella Spagna franchista durante gli anni del regime; una proposta arrivata da Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, anch’essi parte integrante della mia personale biografia teatrale, nell’estate del 2014 e anch’essa accolta con entusiasmo, convinto della prospettiva di senso che il progetto dedicato a Pasolini stava prendendo. Già le prove col vento in poppa lo annunciavano, ne è risultato uno spettacolo di grande bellezza (permettetemi la libertà, da produttore, insieme alla Fondazione Teatro della Toscana, di dichiararlo): per monumentalità compositiva e finezza drammaturgica, per l’orchestrazione di un ensemble tutto in parte e così affiatato nella bravura, invenzioni sceniche e poesia visionaria, cui contribuiscono gli stupefacenti costumi di Giovanna Buzzi, la tavolozza delle luci, la colonna sonora, in una delle regie più compiute, perfette e mature di Federico Tiezzi. Con un omaggio dichiarato, in particolare nelle vertiginose pareti della scena di Gregorio Zurla, alla versione che ne fece Luca Ronconi nel corso della bella utopia del Laboratorio di Prato nel 1978. A ricci/forte il compito di chiudere la stagione, con una nuova creazione ispirata al mondo di Pasolini con PPP Ultimo inventario prima di liquidazione (14/16 giugno 2016, sempre all’Argentina), un una scena fortemente evocativa, ancora uno stanzone immenso, questa volta dalle pareti bianche e una montagna di pneumatici anch’essi bianchi: un’arena quasi sacra dove far esplodere le fisicità espressive dei corpi degli attori-performer.
Ancora accadimenti speciali in programmazione all’Argentina sono stati l’Atelier per Pasolini Aubade, “cantata della Dopostoria” di Carla Tatò e Carlo Quartucci (2 novembre 2015); la proiezione della video-opera Pier Paolo Poeta delle Ceneri, ripresa live dello spettacolo del 2012 di Irma Immacolata Palazzo e Gianni Borgna (2, 15, 29 dicembre 2015). Mentre gli spazi esterni del Teatro India hanno accolto l’intervento di street art dell’artista Frederico Draw: un’opera murale di grande formato, in bianco e nero, su uno dei due silos su cui campeggia, gigante, il volto iconico di Pasolini (inaugurazione 1 novembre 2015), con sul fondo la mole totemica e leggera del gasometro e un intorno che è puro paesaggio “pasoliniano”.
Mentre stendo queste note, mi rendo sempre più conto di come la figura di Pasolini mi abbia accompagnato fino a oggi, nel mio quotidiano lavoro, al Teatro di Roma, e così mi accorgo di aver dimenticato un altro capitolo importante: quello di Una giovinezza enormemente giovane, un testo scritto da Gianni Borgna, ispirato a testi di Pasolini, interpretato da un toccante, incisivo, poetico Roberto Herlitzka, nei panni del poeta, su una distesa di sabbia, diretto da Antonio Calenda: un doppio omaggio a due figure importanti nella storia culturale della Roma del Novecento. E poi, che dire della “Pietà” di Ernest Pignon-Ernest con Pasolini che porta tra le braccia il cadavere di se stesso, che appare sui muri antichi di Roma proprio a partire da via di Sant’Anna a 200 metri dal Teatro Argentina? È stato un vero e proprio choc trovarvisi di fronte, così, di colpo, uscendo da una trattoria, quando mezz’ora prima non c’era ancora, un’opera di street art che adottiamo subito come immagine del nostro progetto. Pasolini in piedi, col suo indimenticabile volto scavato, in giubbotto scuro, ci guarda interrogandoci, ammonendoci sulla tragica fine della propria vita, offrendo se stesso in sacrificio, come un santo martire alla Genet, per dirla con Sartre, sbattendoci in faccia, a misura naturale, il senso della vita che è insieme perdita, violenza, morte, con potente dimensione profetica, quel testimone carnale di ieri e profeta dell’oggi, quando tutto pare ormai consunto. E poi lo spettacolo tratto dalla fiaba I fanciulli e gli elfi della compagnia Circomare Teatro (21 maggio 2016).
Roma per Pasolini è stato ed è ancora in questa nuova stagione il percorso composito di spettacoli, eventi speciali, incontri, costruito attorno alla sua figura come occasione per riflettere su di noi, sul nostro presente e sul nostro passato, attraverso le parole e l’opera di chi l’attualità aveva saputa decifrare con disincantata lungimiranza e testimonianza quasi “carnale”. Ad aprire la terza stagione del nuovo corso, quasi a chiudere simbolicamente l’anno pasoliniano, ecco la nostra nuova produzione Ragazzi di vita, il primo romanzo di Pasolini, per la regia di Massimo Popolizio, su drammaturgia di Emanuele Trevi, con Lino Guanciale protagonista assieme a un folto gruppo di interpreti, per la prima volta portato in scena. Non è stato facile convincere Graziella Chiarcossi a concedere i diritti di rappresentazione di Ragazzi di vita venendo meno alla regola che s’è data di non tradurre in spettacoli i romanzi del cugino Pasolini, e dunque la ringrazio di cuore per la concessione e per la fiducia nel nostro lavoro. Voglio qui dire dell’intelligente tensione, passione e talento, con cui Massimo Popolizio ha condotto il lavoro delle prove e il montaggio di questa creazione che presenta non pochi elementi di interesse e di originalità. Si noterà bene, all’ascolto meglio che alla lettura, come la lingua di Ragazzi di vita sia una lingua espressionista, che certamente attinge dalla lingua reale delle borgate frequentate dall’autore al suo arrivo a Roma, nel 1950, carico del dolore causato dalla radiazione dal Pci, dall’allontanamento dall’insegnamento in una scuola media, dalla separazione dall’amato Friuli della giovinezza. Una lingua che è carnale, lirica, in azione. Si noterà come quel piccolo popolo di ragazzi transiti dalla adolescenza all’età adulta, dalle borgate che sanno ancora di campagna, di mondo arcaico e rurale, al boom economico del dopoguerra e all’inurbazione nella grande città. Un coro da cui si staccano progressivamente, nell’alternarsi dei capitoli, i protagonisti dei racconti scelti, coro nel quale si mescola e a volte si stacca un testimone, Lino Guanciale, nei panni di osservatore, corifeo, narratore, che a tratti si fa “mediatore” fra noi che guardiamo dalla sala e la vita che si stende sussultuosa nell’immenso palcoscenico nudo del Teatro Argentina. Si registrerà l’insolito ed efficace passare dalla prima alla terza persona, che fa di questo spettacolo un episodio speciale e raro nel teatro italiano: ci riporterà d’un balzo al Pasticciaccio di Gadda mirabilmente riversato sullo stesso palcoscenico da Luca Ronconi (esattamente vent’anni fa). Si noterà la rinuncia al naturalismo e la scelta di una recitazione epica, così come nei suoi film Pasolini si stacca dal neorealismo per superarlo in chiave lirica e espressionista. Si percepirà come le pagine scelte stanno in scena anche grazie al materiale cui si è dovuto rinunciare, come bene precisa il dramaturg Emanuele Trevi. Si ascolterà quel coro dalla purezza insozzata, dall’ingenuità scaltra, financo cantare: canzoni lontane, del tempo del romanzo, lontante dalla giovane età dei suoi interpreti. Si ride e si sorride con questi ragazzi portatori di quell’impasto all’arcobaleno di sentimenti e di accadimenti che sono la vita stessa. Si noterà di come quel mondo risulti perduto, ormai, ma che si rinobilita diventando metafora di una perdita più generale, in questa Italia plumbea, e la tenerezza affiorerà dal quel paesaggio antropologico fremente e furioso, tenero e violento, picaresco e lirico allo stesso tempo. Ecco perché Ragazzi di vita si riconferma a distanza di 60 anni un romanzo importante nella storia della letteratura italiana, nel quale la lingua, quel romanesco rivisitato (come il napoletano falsamente seicentesco che Eduardo inventa per tradurre la Tempesta di Shakespeare), risulta così efficace alla prova scenica. Si capirà bene come l’attore Massimo Popolizio, fra i più bravi della sua generazione, sia l’attore che ha metabolizzato appieno e al meglio la lezione di Ronconi senza emularlo, senza “ronconeggiare”. Oggi non sappiamo ancora quale sarà l’esito finale di questo nostro spettacolo, perché è dall’incontro col pubblico che si capirà se abbia un senso profondo, ma le premesse che esso rappresenti un capitolo significativo del nostro operato e nella storia del Teatro di Roma ci sono tutte. Una cosa è comunque certa: lo spettatore si porterà dietro per lungo tempo la disperata vitale innocenza di quel branco di ragazzi e ragazze che Pasolini ci ha raccontato e cui abbiamo dato vita vera.
Ma Pasolini ci accompagnerà ancora, riapparendo nella riproposta, al Teatro India, di Sono Pasolini, la drammaturgia cantata di Giovanna Marini che, dopo il successo della scorsa stagione, ritorna a grande richiesta (25/30 ottobre). Seguono Orgia di Fibre Parallele, con Licia Lanera interprete di entrambi i ruoli della coppia protagonista (12/15 gennaio, India), l’omaggio di Giuseppe Manfridi, che ha scritto un copione per l’occasione, L’indecenza e la forma – Pasolini nella stanza della tortura, per quella erinni della scena che è l’attrice Francesca Benedetti, già meravigliosa, surreale Regina nel Calderón di Tiezzi, diretta qui da Marco Carniti (13 febbraio, Argentina), per finire con il secondo Latella di stagione, Ma, il “solo” per attrice, Candida Nieri, e drammaturgia di Linda Dalisi, dedicato alla madre di Pasolini (21/26 marzo, India).
Per finire, una nota personale. Pier Paolo Pasolini, come per tanti della mia generazione, è entrato in modo precoce e violento nella mia vita. Ricordo con una precisione cristallina il telegiornale di quel 2 novembre 1975, sul primo canale. Avevo dodici anni appena e avanzai verso il televisore del tinello di casa, in quel palazzotto costruito da mio padre, nel piccolo paesino della provincia di Matera dove ho vissuto fino ai tredici anni. Appiccicato al Telefunken di allora, col vetro bombato, mi si è incuneata nella memoria l’immagine del corpo del poeta insanguinato e violato riverso a pancia a terra sul lido di Ostia, con un cerchio di persone che l’attorniavano quasi in funzione di coro di tragedia antica. Le immagini ancora in bianco e nero della televisione di allora, rendevano l’accaduto ancora più drammatico, violento. Ne fui colpito profondamente. Pasolini irruppe, così, purtroppo, nella mia biografia, da morto, e ricordo i funerali qualche giorno dopo, sempre visti attraverso la televisione grazie alla quale mi appassionai all’intera vicenda: l’urlo disperato di Alberto Moravia in Campo dei Fiori affollato all’inverosimile: “Di poeti così ne nascono uno ogni cent’anni...”. Due anni dopo, a Milano, mi ritrovai a leggere, alle prime consapevolezze di adolescente, il libro Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, montato con fervore e meticolosità da Laura Betti, con quella copertina color senape con il poeta seduto su una sedia davanti al pulpito del giudice. Manco a dirlo, pubblicato da Garzanti (1977), l’editore del suo primo romanzo. Non ho più rivisto quel libro, piombato in casa portato da mia sorella maggiore Angelica, che lavorava di giorno e di sera frequentava il liceo classico Carducci di piazzale Loreto: lo lessi d’un fiato e fui proiettato in un mondo ancora per me poco conosciuto, quello dell’arte e della politica, della creazione e della violenza, dell’omosessualità e della censura, di processi e attacchi mediatici. Qualche mese dopo mi ritrovai a vedere Salò o le 120 giornate di Sodoma, restato incompiuto e distribuito postumo come Petrolio, e anch’esso approdo di una vita e di una poetica, nel corso di quei pochi giorni di proiezioni prima del ritiro dagli schermi: riuscii ad arrivare alla fine di quella versione non censurata, coprendomi gli occhi spesso per l’insopportabilità della visione di alcune scene. Parallelamente scorreva il tempo della lettura delle sue opere e la visione dei suoi film, in cineteca, nel salone dell’oratorio della Chiesa di San Marco, quartiere Brera, così affollata di noi ragazzi degli anni Settanta, seduti financo per terra, spalle al muro con visioni sbilenche di film e retrospettive della nostra iniziazione al cinema. Poi conobbi Giovanna Marini, e la sua Cantata per la morte di Pasolini. Ma prima ancora: durante l’università e l’apprendistato in Ubulibri, con Franco Quadri, vidi Orgia con Laura Betti e Alessandro Haber a Torino, con la regia di Mario Missiroli ma ancora più forte fu la versione di Massimo Castri, ambientata in un cimitero, fra lapidi e tombe-letti, con due bravissimi Stefano Santospago e Laura Marinoni, e poi Pilade montato da Ronconi al Castello di Rivoli con gli allievi della scuola dello Stabile di Torino ai tempi della sua direzione, il Calderón evocato dalle immagini del volume sul Laboratorio di Prato edito da Ubulibri, o in frammenti video. Poi è arrivato il bellissimo I Turcs tal Friûl (1995), diretto da Elio De Capitani, con i cori musicati da Giovanna Marini. A Elio chiesi, sempre nel 2014, per l’anno pasoliniano in costruzione, di rimontare I Turcs, per il Teatro di Roma, ma declinò l’invito. Così come disse no l’attore Antonio Piovanelli, cui domandai di rimontare Il pratone del casilino, il brano forse più feroce e paradigmatico di Petrolio, nel quale Piovanelli, diretto da quel grande regista appartato che è stato Giuseppe Bertolucci, si immolava, sprofondando con una fisicità mai vista prima, di voce e corpo, saliva e parole, quasi in un rito sacrificale (e fu una delle prime recensioni per Repubblica di Milano che mi toccò scrivere). Negli anni Novanta ho conosciuto Francesco Leonetti, grazie all’amico scultore Arnaldo Pomodoro, l’intellettuale (che parola desueta!) che con Pasolini fondò, a Bologna, subito dopo la laurea, la rivista Officina e che Pier Paolo volle, insieme ad altri amici, a fare da comparsa nel suo Vangelo a Matera... Infine, debbo confessarlo: da quell’adolescenza segnata dalla morte barbara del poeta mi sono portato dietro negli anni lo struggimento di non averlo conosciuto da vivo e per davvero, questo artista intellettuale così fuori dal coro, mai allineato, dalla storia travagliata ma mai arreso. Sarà stata quella perdita dolorosa, questa assenza, questo vuoto vertiginoso, che mi ha portato, quasi inconsciamente, a realizzare un percorso che solo oggi mi rendo conto di quanto importante sia stato, per me, per la mia biografia di ragazzino di un Sud arcaico e puro, ma anche drammatico e misterioso, trasferito al Nord a reinventarsi la vita; così come confido sia stata e sia una occasione non effimera o semplicemente celebrativa per tutti coloro, artisti e spettatori di questa Roma smarrita e di questa Nazione disorientata, la cui condizione presente Pasolini così profeticamente seppe annunciare.
Antonio Calbi
Direttore del Teatro di Roma - Teatro Nazionale
News
-
Visita spettacolo al Teatro India
-
Il compratore di anime morte
-
“L’eco der core” Roma com’era, Roma com’è nei testi e nelle canzoni di Roma
-
Visita spettacolo al Teatro India
-
Una giornata fatale del danzatore Gregorio Samsa
-
Roma in versi
-
È nato il nuovo canale Instagram della Fondazione Teatro di Roma!
-
Teatro di Roma, nominato il nuovo Consiglio di Amministrazione
-
Il Teatro di Roma diventa Fondazione
-
Carta Giovani Nazionale
-
Art Bonus - Sostieni il tuo teatro!