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scritto e diretto da Patrizia Zappa Mulas
un progetto della Scuola di teatro e perfezionamento professionale del Teatro di Roma
con Paride Cicirello, Vincenzo D’Amato, Alice Spisa, Jacopo Uccella
scene Francesco Zito
costumi Virginia Gentili
assistente alla regia Antonietta Bello
assistente volontario alla regia Stefano Scialanga
orari spettacolo
10 - 11 - 13 maggio ore 19.00
12 e 14 maggio ore 21.00
domenica 15 maggio ore 17.00
Che cosa definisce la figura della vittima? La vittima sacrificale, la vittima designata, il soggetto debole che diventa capro espiatorio è per definizione inerme: non si difende. La comunità scarica sulla sua carne le proprie pulsioni distruttive e in questo modo le placa. Un archetipo schiacciante e ambiguo, che non parla solo alla nostra pietà.
Che cosa succede se la vittima si presenta all’improvviso nella posizione del carnefice? Che cosa altera nell’orizzonte simbolico l’affacciarsi sulla scena di una figura femminile inedita che si presenta come soggetto a pieno titolo e reclama il diritto di non essere più sacrificata? Quali recessi profondi della civiltà ne sono toccati?
Da queste domande nasce Chiudi gli occhi.
La violenza irrazionale che pervade ogni comunità umana continua a gettare un’ombra inquietante sul rapporto tra femmine e maschi. Nelle società islamiche modernizzate, il processo di parificazione importato dall’Occidente ha generato, per reazione, il ripristino violento della sudditanza dei soggetti femminili – l’imposizione del velo, la riduzione delle possibilità di autodeterminazione personale, dei diritti giuridici e civili, ecc. Nelle società occidentali si è tradotta in una strage di donne soppresse da un familiare che non tollera la perdita del controllo sulla propria femmina (non più inerme). Ci troviamo ogni giorno a fare la conta delle vittime.
Le nostre e le loro.
A Teheran una ragazza accecata dall’acido solforico si appella alla Shari’a e ottiene il diritto di accecare il suo distruttore. Un delitto finora impunito diventa finalmente reato penale ma la pena è una tortura di Stato. Il mondo intero s’interroga: è un passo avanti per la civiltà islamica o un ritorno alla barbarie? Come possiamo orientarci? Sono domande che ci intaccano. Chiudi gli occhi mette in scena un dilemma senza soluzione: sostenere la richiesta di giustizia di Ameneh o fermare la sua mano? Non sappiamo più che cosa sia giusto.
Il caso di Ameneh e di Majid interroga l’immaginario umano. La potenza mitica della vittima si affaccia sulla scena mediatica globale come un gigantesco specchio riflettente. Ameneh e Majid celebrano un rito inedito nel quale la vittima designata impugna un’arma contro il proprio carnefice in nome di Dio. L’ordine simbolico vacilla, non solo a Teheran, ma in tutta la specie. Attraverso la vicenda giudiziaria di Ameneh e Majid, abbiamo sbirciato nell’abisso antropologico da cui siamo emersi. I nostri cromosomi hanno registrato il pericolo, un campanello d’allarme è corso lungo i ventiquattro paralleli del pianeta. I personaggi della commedia sono i nostri test.
Siamo noi.
Raccontare un dilemma senza soluzione non basta: è necessario incarnarlo. Ma solo con l’immaginazione, che è la materia del teatro. Siamo a Barcellona, è il giorno dell’esecuzione a Teheran e tre militanti umanitari europei che hanno sostenuto Ameneh si trovano costretti a una resa dei conti personale che culmina in un sacrificio sommario. Ma Ameneh e Majid sono immersi in un destino che li rende indecifrabili, da sempre e per sempre. Sono figure tragiche. I nostri personaggi no: sono maschere di idealisti affannati, testimoni sensibili esposti all’enigma di una sofferenza oscena, non può essere portata in scena. Il teatro di narrazione si contamina con la commedia grazie alla pressione di una tragedia irrappresentabile. E gli attori diventano narratori e vittime dei propri fantasmi, come in un sogno: non sono più padroni di se stessi. Noi e loro – si resta sospesi sul confine tra ciò che siamo e ciò che abbiamo desiderio e paura di rappresentare.
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