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Il testo che qui segue è un estratto del lungo lavoro di documentazione delle prove de I masnadieri di Gabriele Lavia, compiuto da Carolina Iapadre, Laura Khasiev, Stefania Panetta, Azzurra Petrungaro, Stefania Salvatori (foto), studentesse dell'Università di Tor Vergata e giovani del Municipio VIII. Il testo spesso conserva un carattere di ‘appunto' che può rendere meno scorrevole la lettura, ma che non inficia il suo valore filologico
Il lavoro di lettura e introduzione
Gabriele Lavia ha introdotto le prove parlando della modalità con cui vuole procedere. È partito dal racconto di quando mise in scena per la prima volta I masnadieri, in qualità di attore e regista, nel 1982. Lo spettacolo fu un trionfo, partecipò al Festival Schilleriano, la critica tedesca sostenne che in quell'occasione gli italiani avevano dato una lezione su come affrontare Schiller. Questa esperienza ha segnato la vita di Lavia che intende rimettere in scena l'opera, rinnovandola, pur cosciente della difficoltà insita nell'operazione. L'intenzione che lo muove è quella di scoprire tutto ciò che I masnadieri ha da dire oggi, in quanto opera gravida di tanta filosofia antica e moderna, di saggezza, di conoscenza e capace di godere di un respiro tutto nuovo, in linea con la contemporaneità. Lavia ha introdotto il lavoro con una lettura a tavolino, corredata dalle spiegazioni sia del testo che dell'arte dell'attore, attingendo a più riprese dai saperi filosofico-storici. Ha proceduto contemporaneamente, facendo interagire tre piani di studio differenti: il primo relativo all'approfondimento del senso del testo schilleriano, il secondo riguardante più prettamente l'arte dell'attore, il terzo inerente alla messa in scena dell'opera. Il regista ha coinvolto gli interpreti non solo alla lettura, ma anche alla costruzione di un'atmosfera da trasferire sulla scena, facendo riferimento al periodo in cui Schiller ha concepito l'opera. Era il 1781, il Romanticismo stava volgendo al termine, bagnando i suoi strascichi in quel movimento culturale dello Sturm und Drung (Tempesta ed impeto), in cui l'opera è pienamente immersa e di esso si bagna sino a colorarsi di quelle tonalità "furiose", che rivestono l'animo dei personaggi. In quello stesso anno Immanuel Kant scrisse La critica della ragion pura, opera emblematica di uno stato d'animo che stava volgendo radicalmente ad un cambiamento. Quel cambiamento si sarebbe concretizzato otto anni dopo con la Rivoluzione francese. In Schiller c'era quel fermento e quella voglia di ribaltare impetuosamente la realtà e Lavia si è infatti soffermato sulla battuta di capitale importanza, pronunciata da Karl: «Libertà o morte», che in tedesco fu concepita con i termini di «Freude oder Tod», letteralmente «Gioia o morte» perché a quei tempi non poteva essere né pronunciata né scritta la parola "Libertà". Così quello di Schiller divenne un "Inno alla gioia", vero e proprio atto solenne ed etico nei confronti del potere di quel tempo. Ciò rappresentò un invito ancora più vigoroso e carico di significato, che conteneva quel senso di libertà inteso dall'autore, ma anche molto altro e soprattutto quella voglia di ribellarsi. I masnadieri sono giovani che l'autore definì libertini, banditi, assassini nell'anima, questo gruppo di individui che Lavia ha inquadrato come ragazzi senza speranza, immersi nell'aridità degli intenti, privi di una meta da inseguire e capaci solo di eseguire gli ordini di colui eletto come capo banda, Karl von Moor, definito dal regista «dittatore nella sua essenza più profonda, che dominato da un forte senso di giustizia, si trascina a compiere atti ingiusti». Se Schiller lo fa andare via pentito di aver compiuto delitti e privato di ogni stimolo di continuare a guidare i banditi, Lavia accentua il taglio dell'opera con un finale "in tinta" con la nostra contemporaneità, facendolo uccidere da coloro che lui stesso ha guidato fino a pochi momenti prima... I masnadieri erano e sono coloro che, animati da quel senso di libertà, vogliono spezzare le catene, un tempo rappresentate dal potere imperante, personificato nella figura di Federico II, oggi costituite dalla possibilità di respiro che viene sempre più negata alla cultura. Schiller parla anche di "verità", e Lavia si è soffermato a spiegare il senso di questo termine riferendosi all'ambito prettamente filosofico, dunque come "aletheia", termine greco che si asccosta allo ‘svelamento', quindi al togliere il velo dell'oscuramento e mostrare ciò che esso cela. Questa parola prende le distanze dunque dalla "verità" intesa dai latini, la "veritas" che ha la medesima radice della parola "verum" ossia barriera e portone, e quindi è qualcosa che si ha abbattendo quel portone. Per accedere alla verità è dunque necessario abbattere il portone, ossia il "falsum" (in latino) e quindi cadere, per poi rialzarsi e andare aldilà di esso il vestibulum, luogo in cui per entrare è necessario abbandonare il proprio abito. Questo discorso oltre a riguardare l'essenza per l'opera, si fa utile all'attore, colui che svela la verità, e lo fa mentendo, sulla scena, abbandona le proprie "vesti", per assumerne altre e dire la verità del personaggio che deve interpretare. Il regista ha proseguito la spiegazione facendo capire però che non si può prescindere del tutto dal significato latino di "veritas", che ha il suo corrispettivo opposto nel termine di "falsum" da "fallere", ossia compiere un passo falso, cadere, far crollare e quindi tutto si collega: la ricerca della verità implica l'abbattimento delle barriere e i masnadieri sono i portatori di tale missione. Il regista ha fatto capire che nell'autore tedesco tutte quelle che sono immagini filosofiche ed ideologie dense di senso etico e civile, si sono tramutate in immagini poetiche, che sulla scena vanno rese proprio essendo consapevoli di queste valenze. Figure basilari del testo sono Karl e Franz, i due fratelli in antitesi, l'uno bello, intraprendente, eroico, protagonista di un dramma ideologico, l'altro storpio, gobbo, claudicante, antieroico e portatore di un dramma psicologico. Quest'ultimo è capace solo di fare cose spregevoli, si macchia di omicidi e infine del suicidio. Lavia lo descrive come il figlio non considerato, escluso dagli affetti paterni, riversati tutti sul fratello, sano e bello, che Franz ha guardato sempre con ammirazione, stupore, desiderando di divenire come lui. Per il regista i due potrebbero essere gemelli, il buono e il cattivo, le due facce di una stessa medaglia, in qualche modo figure della filosofia eraclitea che vede la necessità di coesistenza dei contrari, motore di tutte le cose. La motivazione fondamentale che ha portato Gabriele Lavia a scegliere quest'opera nella rosa delle opere teatrali sta soprattutto nel fatto che, come egli ha spiegato, oggi ci stiamo dirigendo verso un nuovo sorgere della civiltà occidentale, proprio come all'epoca in cui Schiller scrisse, periodo in cui il germe della Rivoluzione era in atto e ci si stava muovendo verso una nuova epoca, che avrebbe tagliato radicalmente con quella precedente. Tutto questo è importante anche perché il regista, attraverso tale riflessione, ha voluto pensare a come rendere la battuta di Karl «Libertà o morte», facendo risuonare nella parola libertà anche quel senso di verità di cui sopra si è parlato, evocando la necessità di una scelta radicale che porti i nostri tempi così "liquidi" ad assumere le coordinate di una meta precisa, che ribalti lo stato attuale della situazione socio-culturale.
Circa lo stile con cui ‘leggere' oggi I masnadieri, Lavia ha scelto un'estetica ‘rock' evidente già dai costumi che ricordano i films di Tarantino, dalle musiche, dall'interpretazione stessa, asciugata da ogni convenzionalismo accademico e sorretta da un furore intriso di quell'antico Sturm und Drung,accompagnato dalla foga tipica dei giovani di oggi, la cui debolezza si manifesta attraverso sfoghi collerici. Le prove sono divenute delle vere e proprie lezioni di recitazione e per il regista sono state occasione per approfondire non solo l'opera schilleriana, ma anche per dare indicazioni sulla recitazione.
Lavia è passato ad analizzare il concetto di "arché", che ha accompagnato tutte le prove, con l'intento di far capire che gli attori sono degli archetipi, ossia figure para - teatrali, che alludono al teatro, e come il dio Dioniso, che si specchiava per vedersi, essi sono gli unici esseri che possono vedere come sono, il teatro è infatti il luogo dell' "ipseità", ossia il teatro riconosce sé stesso. Gli attori sono agli antipodi di coloro che escono dai format, che sono "deformati" perché inseriti in un contesto dove la ricerca di verità porta ad un paradosso, quello di allontanarsi quanto più possibile dalla verità, dalla forma, che quindi si deforma. Questo discorso sull'attore è morale ed etico, il regista ci tiene a sottolineare che il suo intento infatti non è soltanto artistico, e ne è conferma proprio la sua procedura in cui a fianco alla volontà di come rendere scenicamente l'opera, si sono affrontati discorsi sull'arte del recitare e su cosa dover ricercare in questo tipo di lavoro. Il teatro è l'arte sintesi di tutte le arti e Lavia ha spiegato che l'arte dell'attore è come quella dello scultore: il marmo è solo un materiale, mentre il marmo di Michelangelo è opera d'arte. Per l'attore vale lo stesso, egli è un individuo ma quando "fa la parte" è artista. L'opera è qualcosa che viene fuori da un materiale pre-esistente, nell'opera d'arte c'è l'energheia, ossia l'aversi nell'opera, possedere il proprio essere attraverso ciò che si è messo in forma di arte. L'attore quando è in scena si mette alla prova attraverso dei tentativi, e ha una sua forma e una sua energia, che danno vita ad un'opera unica nel suo essere fisico e corpo, quindi l'attore non è l'individuo della carta d'identità, ma è individuo che esce da sé stesso per divenire prodotto artistico. Gli attori sono principalmente corpo, materia, forma ed energia. L'opera d'arte si genera dall'attore che ne costituisce la sua origine, dunque la sua arché, per questo l'attore è un archetipo. Interpretare letteralmente vuol dire "domandare dentro", Lavia ha spiegato che interrogare il proprio personaggio è la prima mansione che deve compiere l'attore, da quante e quali domande porrà l'attore alla sua parte dipenderà la sua bravura. La domanda dell'interprete segue un percorso circolare, essa ha inizio nella parte e confluisce nell'opera, indagandola a fondo per acquisire elementi utili al proprio personaggio. Il paradosso dell'attore consiste proprio nel fatto che egli è sé stesso solo quando fa l'opera (esso è infatti disperato quando non ha una parte perché non può esprimersi). La sonorità che l'attore deve trovare è contenuta nell'opera, egli deve solo scovarla. L'attore come abbiamo detto è corpo, ma esso è anche voce, questi elementi sono uguali nel lavoro di interpretazione, oggetti da plasmare in funzione della propria parte. Inoltre il pensiero umano nasce proprio dal teatro e ciò lo rende scomodo a tutte quelle istituzioni che attraverso il loro potere vogliono tenere il controllo della popolazione. Tornando a ciò che Lavia ha voluto trasmettere agli attori per mettere in scena quest'opera, è che essi nel fare la loro parte dicono qualcosa che esula dal loro essere, ma che essi ‘pronunciano' proprio attraverso il loro essere: infatti il regista parla di "allò agoreuei" dal greco "mostrare qualcosa di altro da sé", infatti l'attore è sempre allegorico, mette in opera ciò che esula dal suo essere. Ma esso è anche simbolico, il regista ricorre al verbo "sun-ballein" che in greco vuol dire "mettere insieme", infatti l'interprete dopo aver trovato qualcosa di altro da sé deve riunirlo al proprio io e portare sulla scena l'inedita fusione tra la sua identità e quella del personaggio. Egli inoltre è simbolico nel suo essere corpo-voce, questo è fondamento del teatro. Il corpo dell'attore è sovrastruttura del simbolo e dell'allegoria, egli è fondamento del suo stesso corpo che si svela nel luogo del velamento, la skené. Ciò che avviene in scena è un accadere nell' hic et nunc, dunque Lavia sottolinea che esso può definirsi con la parola latina di accidens, ossia "accidente", nel senso di qualcosa che accade apparentemente in modo spontaneo, ma che in realtà per dare questo effetto deve essere creato attraverso un lavoro lungo e meticoloso, che egli ha compito, cercando sempre quella "crudezza", che egli ha spiegato attraverso la metafora della bistecca ancora da cuocere, cruda, per far capire il senso di quel Teatro della crudeltà concepito da Antonin Artaud. Nella mobilità l'attore deve innanzitutto considerare l'upostasis, ossia il luogo dell'abitare della sostanza, che consiste nello stato d'animo dell'attore: egli si trova in uno stato emotivo, dunque lo abita, da qui egli fa sorgere il gesto e crea quella che è la forma artistica della sostanza a cui sta lavorando. Il lavoro delle prove è continuato cercando di portare concretamente sulla scena tutti questi insegnamenti, evocati attraverso i gesti, le tonalità e soprattutto l'essere sul palco con uno stato d'animo costruito come un vero oggetto d'arte. Lavia ha infine ricordato che l'arte dell'attore consiste in un salto, quello che per Platone è il voler possedere ciò che non si ha, questo è l'amore platonico, possedere l'idea di qualcosa che non si ha e che in Eraclito si traduce in maniera ancora più esaustiva con un "tendere a" qualcosa, un luogo metafisico, che è altro dall'essere, ulteriormente riscontrabile in quel Super-io nietzschiano, a cui per l'appunto tende l'io quando vuole elevarsi, proprio perché il teatro è elevazione.
Franz e Karl
Quattro praticabili allineati in diagonale, numerose piantane sparse e una vecchia poltrona alla destra del proscenio. Questi sono gli unici elementi che Gabriele Lavia ha previsto.
Le prime figure affrontate nelle prove sono quelle di Massimiliano von Moor, l'anziano e potente padre interpretato da Gianni Giuliano e di suo figlio minore Franz, storpio e affetto da zoppia, che ha invece il volto di Francesco Bonomo. Proprio il vecchio Moor, adagiato stancamente sulla poltrona di scena, intento a leggere con un'aria un po' assonnata, apre idealmente il sipario. Lentamente, claudicante, appare dalla quinta di sinistra il giovane Franz.
Il suo anziano padre non si accorge di lui, finché la distanza fra i due non si stringe sempre più e Bonomo pronuncia le sue prime battute. La reazione spaventata di Giuliano, dà il via alla caratterizzazione del personaggio dell'infido Franz.
Lavia decide non a caso di farlo entrare di soppiatto, quasi strisciante, per far osservare bene agli spettatori tutte le sue anomalie fisiche. I primi, lenti e studiati gesti di Franz von Moor, sono anticipatori delle sue future macchinazioni.
La vecchia poltrona e i praticabili ordinati compongono lo spoglio arredamento di un'ipotetica sala del nobile castello della casata dei Moor. In futuro, si presteranno, assieme alle molteplici piantane, ad evolversi in selva, locanda, accampamenti. La scenografia essenziale è funzionale al continuo modificarsi e divenire spazio-temporale del testo.
Francesco Bonomo percorre ampiamente il palcoscenico, nella scena che condivide con Gianni Giuliano, opponendo alla rigida staticità del vecchio padre, le ambigue movenze di Franz von Moor. Il secondogenito del conte Moor, raggiunge l'anziano genitore per portargli a suo dire, pessime notizie provenienti dal loro agente di Lipsia. Lo sciagurato soggetto di tali avvenimenti è Karl von Moor, il primogenito, il figlio bello, aitante e coraggioso, colui nel quale sono riposte tutte le speranze future della casata dei Moor.
Il personaggio di Franz, appare dalla prima scena come la vittima di un ingiusto padre, che detesta questo figlio disabile, i suoi handicap, il suo essere inadatto a portare il nome della famiglia. Dalle prime battute quindi, Franz von Moor, deve apparentemente gestire le malefatte che combina suo fratello Karl, girovagando per la Germania.
La grande attenzione e la forte preoccupazione che assalgono il puritano e vecchio Moor si erigono veementemente in contrasto con le dure e spazientite parole che sono riservate a Franz.
In realtà è proprio da questa prima scena, con la finta lettera fatta giungere da Lipsia, che Franz inizia ad orchestrare la sua macchinazione, come un abile regista, nonché attore. Le cure e le accortezze amorevoli, riservate al vecchio padre, il pianto sconfortato in cui si prodiga nel momento in cui, dalla missiva da lui stesso redatta, apprende le ingenti perdite di denaro e i comportamenti deplorevoli dello sciagurato Karl, sono tutti artifici ben programmati dal piccolo storpio. Il suo inginocchiarsi supplichevole e preoccupato, ai piedi della poltrona dov'è seduto suo padre, continuando a colpire il conte con le cattive notizie, è in realtà la posizione di una serpe, pronta a scattare, a mordere e ad infettare tutto con il suo veleno, l'odio e il livore.
I movimenti di scena, definiti con molta cura da Gabriele Lavia, tendono sempre a richiamare simbolicamente eventi futuri. Sul terminare della loro animata conversazione, Massimiliano von Moor e il giovane Franz, si dividono: il padre si avvia verso i praticabili, mentre Franz cautamente si adagia sulla poltrona, simbolo di potere e di comando, esattamente gli obiettivi verso quali tendono le sue mire.
Proprio sulla vecchia poltrona, Franz resta solo in scena e quasi come in una cinematografica dissolvenza incrociata, condivide per un attimo il palco con suo fratello Karl, determinando un accavallamento spazio-temporale che cattura l'attenzione e la curiosità del pubblico.
Si crea il gruppo dei masnadieri
In questa seconda scena ci viene presentato per la prima volta il gruppo dei masnadieri. Lavia sottolinea il vigore di questi uomini incitandoli continuamente a tirar fuori tutta la loro virilità, ponendo l'accento attorno alla ricerca della passione. Il livello della comunicazione da trovare è quello della postmodernità, in cui oggi siamo tragicamente immersi, le battute devono essere espresse in modo tagliente e diretto, privo di quell'enfasi ottocentesca artificiosa e convenzionale. Una figura di rilievo del gruppo è rivestita dall'attore Marco Grossi nei panni di Spiegelberg, il secondo antagonista di Karl, dal carattere particolarmente arcigno, subdolo e calcolatore. La delineazione del suo personaggio avviene attraverso la narrazione di un aneddoto legato alla sua infanzia tramite cui comprendiamo tutta la sua frustrazione mista a rabbia dovuta alle angherie subite. Lavia ha indicato all'attore di concretizzare fisicamente la sua battuta mimando il salto nel fosso di cui parla, al fine di rendere le parole vere e proprie immagini da donare al pubblico. Il regista spiega a Grossi, utilizzando le parole di Heiddeger, che Spiegelberg è un individuo gettato nel mondo, che diviene "un essere-in o un essere-con", questo per far capire che il personaggio nel suo racconto a Karl è "con" lui e "in" lui. Il suo carattere machiavellico si rileva inoltre nella scena in cui tenta in tutti i modi di convincere gli altri componenti del gruppo a formare una nuova banda con lui a capo al posto di Karl, il quale si allontana temporaneamente dal gruppo atterrito dopo la lettura della lettera inviatagli dal fratello nella quale viene disconosciuto dal padre. I masnadieri disorientati dall'eventuale cambiamento iniziano ad assumere posizioni diverse, non riuscendo a credere possibile la sostituzione del loro capobanda Karl von Moor. Quest'ultimo, ben presto, torna in scena, devastato dalla notizia ricevuta, la sua delusione verso il comportamento attuato da suo padre, lo porta a un disgusto verso l'intero genere umano. Le sue parole sintetizzano la ripugnanza nei confronti dell'incongruenza tra cose dette e azioni compiute, tanto da fargli asserire: «Lacrime agli occhi e cuori di pietra».
Uno dei momenti più suggestivi dell'intera messa in scena è rappresentato dal giuramento dei masnadieri. Il gruppo dei giovani banditi, propone al loro capo di formare una banda di fuorilegge e di rifugiarsi nella selva boema. Karl, furibondo, ritiene ormai di non aver più nulla da perdere: la vita per lui è solamente «una specie di maledetta lotteria». Il nichilismo è imperante. Il conte senza più un nome asseconda il piano, si esalta di fronte la possibilità di scardinarsi da quel mondo tanto odiato fatto di norme e divieti, raccoglie intorno a sé i suoi compagni e afferma con decisione che è giunto «il tempo della violenza e dell'odio". Il furore e l'impetuosità raccomandate da Lavia in questa scena, sono tese a ricreare l'atmosfera di un romanticismo giunto agli sgoccioli che rende i banditi proiettati verso un solo desiderio, la distruzione dell'ordine precostituito attraverso la brutalità e la ferocia. Questi apostoli fedeli sono uniti in nome della crudeltà e della barbarie al loro dio. Il simbolo cristologico viene impersonato scenicamente da Karl, che inginocchiato e con le braccia tese raffigura visivamente il simbolo della croce, richiamando intorno a sé i masnadieri, come suoi fidati discepoli. Questa suggestiva immagine in cui si suggella il patto di sangue tra i masnadieri, viene resa dal regista attraverso questo paradosso visivo, resa da un ‘Cristo' che si immola con l'intento di ristabilire una giustizia attraverso il male.
Preparando il finale
Karl decide di far ritorno a casa, il bisogno di rivedere suo padre e la sua amata Amalia è estremo, ma qualcosa, appena arrivato a destinazione, lo blocca. Finge, infatti, di essere un uomo venuto da lontano proprio per paura di rivelarsi, di farsi riconoscere dai propri cari dopo tutti i crimini da lui commessi.
L'incontro con Amalia nel salotto della reggia è suggestivo. Il riferimento alla passione travolgente che unisce i due ‘estranei', la voglia che entrambi sentono di ricongiungersi, ma allo stesso tempo di separarsi, vengono espressi attraverso i movimenti resi con estrema attenzione ai particolari: un gioco di avvicinamenti, sospiri, ricordi e distacchi.
Karl risulta agli occhi dello spettatore chiaramente confuso, in balia tra due forze opposte, il bene e il male, che non gli lasciano via di uscita. I suoi pensieri, sviluppati e amplificati abilmente nei monologhi con una luce soffusa e con l'utilizzo del microfono, riescono a creare un'atmosfera simile a quella di un'altrove, un uomo che parlando tra sé e sé si rivolge contemporaneamente al mondo intero.
Un personaggio molto ‘psicologico', difficile da capire nella sua interezza, proprio per i suoi continui sbalzi umorali, un uomo in lotta con il mondo ma prima di tutto con se stesso: ecco chi è Karl.
Questo continuo gioco di cambiamenti è reso evidente in quest'ultima parte dello spettacolo: Karl uccide il padre con un colpo di pistola sparato all'improvviso prima di rivelargli la sua vera identità; in balia dei sensi di colpa instaura un dibattito con il gruppo dei masnadieri che, rendendosi conto della totale perdizione del loro capo, lo esortano a tornare il valoroso Karl di un tempo; infine il sublime momento con Amalia, l'amata di sempre, colei per la quale Karl aveva deciso di tornare a casa.
Amalia riconosce il suo uomo, il suo angelo, il suo demonio, il suo Dio e rendendosi conto di non poter più essere sua, rimanendo accecata dal dolore e dall'orrore degli omicidi che egli aveva commesso, lo supplica di ucciderla.
In scena molteplici figure da orchestrare: il corpo del padre Moor riverso morente a terra tra le piantane nell'angolo sinistro-interno del palco e i masnadieri alle spalle di Karl ad occuparne la parte destra. Al centro della scena resta Amalia, la donna fragile per eccellenza, che prova a suicidarsi puntandosi una pistola al petto senza però riuscire nell'impresa.
Il suo desiderio di morte e il mancato coraggio che non le dà la forza di premere il grilletto, la spinge a chiedere all'amato di porre fine alla sua esistenza.
La tensione è vibrante, Karl fa per prendere la pistola, Amalia si getta verso la sua chitarra posizionandosi di spalle a Karl nell'angolo sinistro-esterno del palco ed ecco che inizia a suonare e a intonare la sua melodia.
Il grido disperato di "Maledetti noi" che si fa musica, che si fa brivido e invocazione di un mondo sbagliato e atroce segna il momento dello sparo, inatteso, improvviso, inspiegabile e scenicamente complesso della morte di Amalia.
È evidente l'importanza della posizione degli attori: il palco risulta tagliato a metà da una linea immaginaria che divide la vita e la morte. Nella parte sinistra, infatti, i corpi di Amalia e Moor giacciono distesi e rimangono perennemente illuminati dalle luci di scena, mentre la parte destra del palco è totalmente occupata dal gruppo dei masnadieri e da Karl. Da notare, il lento movimento che compie Karl per raggiungere il lato sinistro del palco ossia verso la "zona-morte". Questo passaggio avviene mentre Karl è intento a concludere l'ultimo dei suo monologhi. Forse per la prima volta dopo tanto tempo, il protagonista si rende conto di aver superato ogni limite umano: ha ucciso la sua famiglia nonché altri poveri innocenti.
Questo movimento verso la parte sinistra del palco segna, quindi, la decisione del capo di allontanarsi definitivamente dal gruppo per consegnarsi alla giustizia.
Fin qui l'adattamento di Lavia corrisponde, con poche varianti, a quello di Schiller, ma il colpo di scena nonché la novità inserita rispetto al testo originario è racchiusa proprio nel finale.
Karl, dopo aver espresso chiaramente al gruppo l'intento di abbandonarli per consegnarsi alla giustizia, suscita nel gruppo un'autentica rivalsa. Uno dei masnadieri spara contro Karl accusandolo di "manie di protagonismo" e così dopo il primo colpo si sente all'unisono la raffica di spari che anche gli altri componenti del gruppo infliggono a Karl, un'innovazione che cambia totalmente il finale schilleriano, dove Karl usciva di scena sano e salvo dopo aver terminato il suo monologo e dove quindi non vi era alcuna reazione nel gruppo nei confronti del loro capo. Lavia, invece, vuole che il suo protagonista muoia in scena, crivellato dai colpi dei suoi compagni fidati.
Alla parte sinistra del palco, già intrisa precedentemente di sangue e di morte, va quindi ad aggiungersi il corpo di Karl.
L'intera casata dei Moor viene soppressa e annegata nel sangue mentre l'unica parte di vita che rimane sul palco viene rappresentata da un'umanità corrotta, disumana, ingiusta e totalmente impazzita.
Tramite queste divisioni sceniche Lavia è riuscito a rendere tangibile l'immagine di una vita spietata dove non c'è più una ragione che regge il mondo e che, seppure vi fosse mai stata, gli uomini hanno fatto di tutto per distruggerla.
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