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Note di regia - di Antonio Calenda
«Così, nessuno fra i mortali, tranne Teseo, potrà mai dire di che morte morì Edipo. Non fu la rossa folgore del dio ad annientarlo, non fu una tempesta sorta dal mare all'improvviso. Forse gli dei mandarono qualcuno che lo guidasse, o fu la terra a schiudersi con un sorriso amico, sull'abisso, sulla casa dei morti. Perché lui se n'è andato senza lamenti, senza dolore di malattia, in un modo miracoloso quant'altri mai» (Edipo a Colono di Sofocle, traduzione di Raul Montanari).
Trasmettono una poetica pacificazione le parole con cui un messaggero, nella scena finale dell'Edipo a Colono, racconta gli ultimi segreti istanti di vita terrena dell'eroe sofocleo: egli infatti - ed è caso rarissimo nella tragedia greca, condiviso in qualche modo solo con il personaggio di Medea - assurge al mistero della sacralità. Un'apoteosi preceduta però da un cammino arduo e irto di lacerazioni, un cammino che si rivela per Edipo una sorta di "massacro conoscitivo" e incarna perfettamente il concetto greco del pàthei màthos.
Se in Eschilo - uno degli autori dell'antichità che nelle stagioni passate ho affrontato più spesso - sono le contraddizioni e le evoluzioni del tessuto sociale a essere messe al centro dell'attenzione, in Sofocle la tragedia si fa strumento per indagare l'uomo e la sua fallibile ricerca di logica, per narrare la sua esplorazione talvolta folle, talvolta nobile o catastrofica in un mondo che è per lui solo in parte intelligibile.
Sofocle compie una rivoluzione copernicana nella drammaturgia antica, interessandosi all'uomo e alla sua sfera privata: di più, probabilmente dando voce all'influsso dei sofisti a lui coevi, sconvolge i principi d'immanenza, tratteggia un universo in cui è forte il senso del relativo e dove l'uomo si affaccia solitario, privo di certezze, intuendo la desolazione che lo circonda e percependo il proprio vacuum interiore. Sofocle anticipa nel 429 a.C. modelli che il teatro ritrova e usa da Cechov in poi, lungo tutto il Novecento, per esprimere l'incertezza, l'insensatezza di quel secolo e dei suoi accadimenti, e che sfiorano l'intuizione della No Man's Land elliotiana, lo scardinamento dell'Assoluto tipico di Beckett e del Teatro dell'Assurdo.
Tracce presaghe, così affini al sentire attuale, che mi hanno ulteriormente motivato ad affrontare una nuova messinscena dell'Edipo Re, testo che considero di assoluta necessità nella cultura occidentale e di cui mi hanno sempre affascinato i molteplici significati e il mistero, che non cessano di riverberare con sempre nuovi echi nel nostro presente. È stato emblematico per me e per gli attori, davanti alle immagini di un mondo smarrito e minaccioso come il nostro, rielaborare il percorso dal buio verso la chiarezza compiuto da Edipo, un viaggio nella mente e nella coscienza che si fa contemporaneamente individuale, intimo, collettivo...
Fin dalle prime ipotesi di messinscena, fin dalle conversazioni iniziali con Franco Branciaroli, ho escluso l'idea di una concezione scenica in termini d'implausibile interpretazione archeologica, che non mi è mai appartenuta. Ho cercato invece di ricreare un nesso emozionale e di plausibilità che avvicinasse - a livello concettuale e ovviamente iconografico - questo grande antico reperto alla nostra condizione di persone che pensano, che vivono intensamente la propria interiorità, che non rifuggono la riflessione su sé stesse.
Il progetto dello spettacolo dunque scaturisce da una rilettura dell'originale sofocleo, integrata dagli assunti teorici di diversi studiosi ed in particolare di Sigmund Freud e René Girard.
Sigmund Freud ritiene che Edipo Re prefiguri la metodologia che consente l'esplorazione dell'inconscio: la psicoanalisi. Attraverso l'archetipo di Edipo inventa un fondamentale itinerario per la conoscenza delle latebre più ignote della nostra interiorità. Egli teorizza che si scateni fra padre e figlio un inconsapevole e inconscio meccanismo di competizione, il cui oggetto è la madre. Grazie al pensiero freudiano l'implicazione fra mito e psicanalisi esprime tutte le proprie potenzialità metaforiche, allusive, e diviene oggetto di ulteriori indagini che attraversano l'intero secolo - quelle di Felix Guattari, Jacques Lacan, Gilles Deleuze... - studiosi che pur contestando lo scienziato austriaco, rimangono in qualche modo legati alla sua invenzione primigenia.
Ecco allora la scelta di portare a teatro la messa in scena di una ricerca, che ripercorre all'indietro il tempo, per riafferrare il senso vero e profondo di un passato che è stato frainteso.
Ecco che Edipo - rimandando a un immaginario novecentesco e mitteleuropeo in cui ci riconosciamo - ci appare mentre freudianamente, attraverso indizi disseminati nel suo vissuto come lapsus, ricostruisce e riscrive con parole di atroce verità il proprio percorso esistenziale, individuando finalmente le radici della propria magmatica parte oscura, della propria inattitudine a conoscersi in profondità.
Nello sfondo della pestilenza, su cui si apre lo spettacolo, ho avvertito un sintomo disturbante, l'equivalente di una moderna nevrosi, di cui vanno ricercate le cause: la malattia è il primo sintomo del declino di una vita perfetta (in cui Edipo è re, padre, marito sereno) minata alla base da un nucleo problematico e irrisolto.
In tale ricerca il testo procede per epifanie successive, per disvelamenti che si susseguono secondo le grandi convenzioni del teatro antico. Il capolavoro sofocleo continua a conquistarci attraverso l'effetto dell'ironia tragica, dell'ambiguità poetica (continuamente il pubblico è al corrente di notizie che Edipo si affanna a scoprire), attraverso la raffigurazione della drammatica solitudine del protagonista e il misterioso concetto di "necessità" - l'anagke nella cultura greca - che noi moderni non conosciamo ma che, potentissima nella cultura antica, spinge Edipo a non essere contemplativo, a compiere un estenuante scavo nel passato per raggiungere la sua drammatica verità (in pieno Ottocento, Friedrich Hölderlin stigmatizzava questo atteggiamento, sostenendo che Edipo "interpretò troppo infinitamente le sentenza dell'oracolo").
Il confronto con René Girard - un antropologo e poi filosofo che tuttora insegna negli Stati Uniti e che già avevo avuto modo di studiare preparandomi alla messinscena di Amleto, nel 1998 - mi ha invece offerto induzioni significative su certe dinamiche sociali e di gruppo. La sua impostazione scientifica, non gli impedisce una possente visionarietà, fonte d'ispirazione molto preziosa per chi si accinge alla messinscena di un imponente reperto classico. L'assunto su cui è fondata la sua ampia produzione saggistica e in particolare, il fondamentale La violenza e il sacro, ha permesso al nostro spettacolo di compiere un passo ulteriore rispetto le ipostasi freudiane.
Lo studioso asserisce infatti che gli individui tendono a un'equivalenza fra i desideri (un concetto che definisce "desiderio mimetico"): tendono tutti ad ambire al medesimo oggetto e questa "indifferenziazione" genera quasi sempre un sentimento di rabbia da cui scaturisce poi la violenza. Applica anche al mito tale concetto, identificando nella rivalità edipica padre-figlio un esempio di "desiderio mimetico". Ma l'Edipo Re è punteggiato da altri scontri riconducibili a questo meccanismo: in una delle prime scene assistiamo ad uno scontro fra Edipo e Tiresia riguardo al sapere, poi fra Edipo e Creonte, dove il campo del confronto è invece quello del potere... Per uscire da tali rivalità e crisi - che potrebbero condurre alla rovina della società, come pure all'estinzione del génos - la comunità si unisce contro una vittima sacrificale, un capro espiatorio che la purificherà e che una volta immolato sarà investito di sacralità. Edipo è un emblema di tale dinamica: la sua "diversità" rispetto ai tebani (è uno straniero, è affetto da zoppia), lo colloca fin dal suo primo apparire quale possibile capro espiatorio...
Nella messinscena ho inteso che il suo itinerario di conoscenza si svolgesse quasi fra il sonno e la veglia, con il Coro che funge da ponte fra queste due dimensioni, fa da eco, da moderno, incisivo commento, ma che possiede anche la funzione di veicolare al pubblico lo stupore e conserva una forte ancestralità. Ancestralità che si esplica spesso attraverso soluzioni sceniche, al cui centro, è proprio il Coro: sono gli occhi misteriosi dei coreuti a dare per la prima volta il segno dello scrutare, del voyeurismo che connota l'intero spettacolo. Ritroviamo poi il senso dell'atavico nel dialogo fra il protagonista e il pastore, cui è il Coro a dar voce, in un onirico unicum che evoca il senso dell'indifferenziazione girardiana...
Poche altre figure, al di là del Coro, si relazionano dall'esterno con Edipo nella nostra messinscena: il Primo messaggero che reca notizie che si espandono fra il vissuto conscio e l'inconscio del protagonista e Creonte, simbolo di un potere terreno che rimane estraneo alla sua ricerca profonda.
Gli altri personaggi - soluzione in cui si sostanzia nuovamente l'indifferenziazione girardiana che genera violenza - sono invece "vissuti interiormente" dal protagonista, quasi attraverso momenti di trance psicanalitica, che contemporaneamente sono metafora dell'incarnarsi in Edipo delle radici di ogni colpa. A Franco Branciaroli dunque ho chiesto di interpretare parallelamente Edipo e Tiresia nella scena del loro pesante diverbio, poi il Secondo messaggero che fa rivivere a Edipo il trauma delle sue origini. Infine l'attore incarna Giocasta, inizialmente scettica, mossa da una sorta di ratio preilluminista davanti all'ansia sollevata dai vaticini, ma poi doppio viscerale della coscienza di Edipo, dilaniata e come lui incapace di sopportare la visione degli orrori inconsapevolmente compiuti.
Davanti al senso di colpa che li divora Giocasta sceglie la morte fisica; Edipo sceglie - ed è utile sottolineare che sceglie consapevolmente qui per la prima volta nella sua esistenza - la morte interiore, di ritornare, accecandosi, a quel buio che lo ha sempre accompagnato.
Nella chiave di lettura irregolare, onirica che ho scelto, l'idea del "vedere" che assurge a leitmotiv concettuale e riecheggia costantemente lungo lo spettacolo, anche sul piano delle immagini, diventa momento di un paradosso nella conclusione della tragedia (l'accecamento di Edipo).
Ai collaboratori, che mi hanno accompagnato nella grande avventura della mente che è stato l'allestimento di Edipo Re, ho chiesto una scatola di velati neri, penombre e tagli di luce, a ribadire la dialettica fra chiarezza e mistero. Uno spazio mentale, onirico, allusivo, che lasciasse intravedere gli incubi e le verità che segnano il cammino del protagonista. Un percorso, lungo le antinomie e le lacerazioni interiori che conducono l'uomo alla cecità, cioè alla consapevolezza dell'impossibilità di conoscere. Ad un orizzonte, apparso dopo una notte di delirio irta di rifrazioni, ove trionfa l'irrazionale, l'obliquo, il dionisiaco.
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