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Ventun' anni fa ho raccontato per la prima volta Kohlhaas. Seduto su una sedia per un'ora e mezza sperimentavo un teatro di pura narrazione. Da allora si chiamò così, teatro di narrazione, per tutti quelli, e furono e sono tanti, che seguirono il mio esempio, provando ciascuno in forme e contenuti diversi a ridurre lo spazio scenico ad un corpo narrante. Ho detto " pura" narrazione, ma sono le impurità a rendere vivo un racconto. Più di una buona metà del "testo" di Kohlaahs è composto da ciò che fa il mio corpo, dai piedi che battono il ritmo, dalle mani, dagli sguardi, dalla biologicità vivente del mio essere. Per questo è impossibile trasferirlo su una pagina scritta. Ci ho provato, il testo canonico è pubblicato ma manca il corpo, con le sue impurità. Ciò che sulla pagina si è decantato è il fantasma di ciò che avviene in scena. Con Kohlhaas ho viaggiato in molti luoghi, ho imparato ad essere nomade, con poco bagaglio in spalla, una sedia e la mia memoria. Nel tempo il racconto si è modificato, come accade alla memoria e all'atto del rammemorare, che è sempre una forma dell'immaginazione. Ogni volta che racconto, Kohlhaas rivive con me, e con gli ascoltatori che mi permettono il piacere di questa resurrezione. Quando io non ci sarò più anche Kohlhaas smetterà di esistere. Per questo il teatro si chiama spettacolo dal vivo, ogni racconto ha come sua misurazione vitale il limite naturale del morire. Scherazade lo sapeva bene. Dopo vent'anni, oltre a riproporre il racconto, voglio provare a narrare la genesi delle immagini di cui Kohlhaas è composto, non una lezione, ma un altro racconto che parla dell'arte del narrare. Le esperienze e riflessioni accumulate in questi anni saranno raccolte in un libro che sarà presentato in uno dei giorni di permanenza al teatro India. L'incanto è il secondo termine del titolo del progetto. Quando nasceva Kohlhaas avevo già raccontato molte altre storie. Dalla metà degli anni ottanta avevo cominciato a narrare fiabe a bambini e ragazzi. E' con loro che ho allenato il mio talento di narratore. Per questo , in queste due settimane al teatro India,voglio raccontare anche una fiaba, Frollo. Le fiabe ci permettono di immaginare mondi diversi da quello in cui viviamo. Ognuno di noi sotto la scorza del ranocchio con cui conduce l'esistenza , nasconde un principe potenziale, in attesa di un bacio o di un tocco che lo riveli e lo trasformi. Le fiabe ci insegnano questo, tanto che può accadere talvolta che qualcuno non resti in attesa ma che quel bacio lo vada a cercare, lottando. Un vero narratore di fiabe sa come vivere l'incanto per poterlo poi restituire a chi lo ascolta, rendendo visibile l'invisibile. In-canto, serve una voce di sirena per accedere all'incantamento, quella voce è capace di sucitare effimere immagini, sempre sfuggenti, mai raggiungibili pienamente, ma al tempo stesso dense di verità, vibranti, palpabili. Cose, parole, gesti divengono memorabili, penetrano in profondità, e nutrono. Anche per questo racconto, per permettere a certe parole, a certi gesti, ad alcune immagini di non sperdersi in mezzo agli scaffali delle merci, dove tutto è ordinato da un prezzo, e dove solo si possono consumare. Narrando le sottraggo alla scorrere opaco dei giorni, divengono esperienze da usare, luccicano , come i sassolini di Pollicino per ritrovare la strada. Alla fiaba sarà dedicata anche una notte da maratoneti del racconto, con gli allievi attori dell'Accademia d'arte drammatica di Roma, con cui costruirò una mappa fiabesca di incontri. Ho pensato poi di raccontare con Tracce, in una collana di narrazioni che ruotano intorno alla parola "stupore", il mio percorso di narratore incantato. È uno spettacolo che nasce intorno alle riflessioni di Ernst Bloch, per vedere, come lui dice, se sia possibile "pensare anche affabulando". Racconto, per frammenti e brevi racconti, che la realtà non sempre è certa, che le verità sono nascoste là dove meno ce le aspettiamo e che il mondo è abitato da multiforme presenze. In Africa ho imparato che gli spiriti abitano ovunque, negli esseri viventi e nelle cose, e appartengono allo stesso incantamento. Di sicuro uno spirito ha abitato un pezzo di legno fino a farlo sgambettare in fuga verso la difficile trasformazione da burattino ad essere umano. In mezzo agli slums di Nairobi ho sperimentato l'universalità dell'atto del narrare. Basta creare una speciale attenzione, un passionale ascolto ed ecco che un ragazzo di strada scopre di avere dentro un sacco di storie da raccontare. So che le storie, come l'arte, non cambiano il mondo, al massimo possono riuscire a renderlo meno terribile, a immaginarlo diverso, a immaginarlo altrimenti possibile. Ma già questa possibilità immaginativa non è cosa da poco.
Marco Baliani
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