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CON Silvia Calderoni, Nicoletta Fabbri, Emanuela Villagrossi
E LA COLLABORAZIONE DI Dany Greggio
illustrazioni Filippo Letizi
VISUAL COMPOSING p-bart.com
Motus, Festival delle Colline Torinesi, Drodesera>Centrale Fies
L’arboreto di Mondaino
CON IL SUPPORTO TECNICO-CREATIVO
dell’Istituto Europeo di Design di Milano
Ied Moda Lab, Ied Arti Visive
E IL SOSTEGNO DI
Regione Emilia Romagna, Provincia di Rimini
direzione tecnica Giorgio Ritucci
fonica Roberto Pozzi
relazioni e organizzazione Sandra Angelini e Elisa Bartolucci
in collaborazione con Valentina Zangari
amministrazione Cronopios
orari spettacolo
martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato ore 21.00
domenica ore 18.00
Rumore rosa
trae ispirazione dall’opera di Rainer Werner Fassbinder, non solo e non tanto da Le lacrime amare di Petra von Kant, cui le tre solitarie protagoniste dello spettacolo rimandano, quanto dai melò di Douglas Sirk, che Fassbinder amava a tal punto da precipitare i suoi drammi dai salotti perfetti dei family drama, alla realtà blasfema dei diseredati e dei diversi… L’amore e l’inganno, le scelte affettive sbagliate, l’usura dei sentimenti con il tempo, la paura dell’abbandono di eroi quasi sempre donne, emarginati o omosessuali, sono dunque i territori su cui continuiamo il nostro viaggio fra i Piccoli episodi di fascismo quotidiano.
Fassbinder osserva uomini e cose agendo per estremizzazioni e polarizzazioni: gli amori sono eccessivi e disperati, l’intolleranza è quella più cieca e feroce, “che c’entra la felicità, qui stiamo parlando di rispettabilità!” (si dice ne La paura mangia l’anima)…contemporaneamente è sempre attento a non idealizzare: tutte le sue vittime possono trasformarsi, e spesso lo fanno, in carnefici altrettanto ciechi e irrigiditi.
Simula l’ordine della vita con l’Imitation of life della zona franca della realtà e dell’ottusità quotidiana, per legittimare le ambivalenze e ambiguità che differenziano l’amore maschile da quello femminile (il primo quasi sempre permeato di non-scelte, il secondo di abbandoni totali). A questo materiale bollente e sanguinante RWF aggiunge il moltiplicarsi delle discrasie fra poteri pubblici e privati, lo scontro tra individuo e storia…fra libertà e desiderio di possedere le cose e gli altri… questioni sulle quali anche Pasolini – e noi con lui – ha costantemente insistito.
Mentre in
Pre paradise sorry now
gli scenari della quotidianità emergono dalle macerie e dai crolli della seconda guerra mondiale, in
Rumore Rosa
il tempo è quello attuale, dove il patetico del melodramma non è più oggetto di un’immedesimazione passiva, ma luogo di intensi sentimenti di comprensione. Ne’ “I film liberano la testa” RWF sostiene che per sottrarsi alle fatali e mortifere leggi della consuetudine dello sguardo occorre collocarsi a una certa distanza dall’evento, per meglio metterlo a fuoco e questo “distanziamento”, questo raffreddamento della percezione, va ben oltre il principio dello “straniamento” teorizzato da Bertolt Brecht:
In Brecht vedete delle emozioni e ci riflettete sopra mentre le osservate, ma non le provate mai davvero, io faccio in modo che il pubblico senta e pensi.
In questa frase –
io faccio in modo che il pubblico senta e pensi
- sentiamo corrispondere l’essenza di ciò che sempre abbiamo tentato di fare con il nostro teatro di dubbi e capovolgimenti. Come in questo caso.
Volevamo mettere in scena un melò fassbinderiano, fare quasi un remake delle Amare Lacrime… ma di fondo non siamo mai stati interessati alle celebrazioni, preferiamo i tradimenti, i ribaltamenti di campo…da qui la decisione di collocarci alla fine della time-line, alla fine delle Lacrime amare, alla fine di Fassbinder, del suo stesso melodramma esistenziale e di quello delle sue magnifiche attrici, dopo, post, per rappresentare non più il "drama" ma l'artificio che gli consente di esistere.
Il soggetto è esploso, rinfranto come su un parabrezza spaccato. Alcuni dialoghi chiave sono stati registrati su vinile come traccia-memoria di un testo che non c'è più, che sopravvive solo nei ricordi di Marlene, la segretaria-serva, muta scrutatrice dei fatti... parole che ancora evocano attese-disattese.
Rimangono un disco che gira su se stesso, un telefono che suona a vuoto, un ventilatore acceso e rumore di passi. Rimangono tre corpi, tre interpreti, tre età della vita. Rimangono dei gemiti di solitudine che si dilatano in uno spazio bianco dove è di casa un amore più freddo della morte. Il bianco del plexiglas compie una sorta di effetto "ibernante" sulle tre figure, non più personaggi ma simulazioni di essi, che non hanno sentimenti, pur dichiarando continuamente di averne. La loro riduzione a icone-fumetto accentua è ancor più accentuata dal dispositivo scenico: alle loro spalle scorrono scenari disegnati da un fumettista, unico elemento di continuità nella frammentazione dei sentimenti. Le zoomate, i passaggi di campo fra interni rassicuranti e oppressivi ed esterni cittadini, freddi e deserti, fanno il montaggio di tre schegge di vita parallele.
Ma alla costruzione del plot mancano alcuni pezzi, lo story-board va in parte ancora disegnato, o forse è lo spettatore stesso a dover completare di senso le curve mutile della simulazione?
Un incidente d’auto diventa unico fulcro drammaturgico, unico elemento di collisione e confluenza delle tre storie. Un incidente-tentato omicidio che torna come loop, che ruota su disco, che è ossessivamente costruito e decostruito, che esprime la frattura insanabile fra l’immaginazione melodrammatica delle origini e la crisi dei sentimenti e degli stereotipi della messa in scena.
Una cesura che Motus porta impressa come un tatuaggio indelebile.
Per ora siamo qui, con tre donne sole che possono rassomigliarsi e forse essere la stessa persona. O forse no. Tre donne che parlano e cantano d’amore e d’abbandono.Tre donne che tentano. Nel bianco di una strada ghiacciata, di un salotto minimale, di uno studio di posa, di una camera da letto, di un set cinematografico, di una sala d’aspetto, di una pista da pattinaggio, di un ospedale … nel bianco di un foglio bianco, disegnato con il tratto insicuro di chi ha ancora paura del bianco.
Tre donne le cui parole sono andate, vanno a vuoto su disco, ruotano e si attorcigliano su se stesse, che appaiono e scompaiono fra le amare lacrime, le lunghe telefonate, il rumore rosa di uno spettacolo dalle curve multiple… Uno spettacolo che vuole essere anche un omaggio a Marta, Effi Briest, Lilì Marleen, Elvira, a tutte le donne protagoniste dei film di Fassbinder, alle sue meravigliose attrici.
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