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Nel gran circo del potere: zibaldone di pensieri intorno a Commedia della vanità
La messa in scena di Commedia della vanità si pone in forte continuità, concettuale più ancora che stilistica, con altri progetti di questi ultimi anni: La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht (2011), Il ratto d’Europa (2013) e Istruzioni per non morire in pace di Paolo Di Paolo (2016). Una riflessione comune lega questi lavori: l’indagine sull’identità europea, sull’esplosione dell’idea di Europa nei primi anni del Novecento (e nel nostro presente) e sui rischi di sbandamento dittatoriale tramati nella storia del nostro vecchio continente. Comune a questi lavori è lo sguardo politico sulla realtà che viviamo, attraverso il recupero della storia dell’Europa ma anche attraverso il confronto con le grandi voci della tradizione culturale del nostro continente. Da qui è scoccata la scintilla che ci ha portato ad aprire un focus su Elias Canetti – un autore apolide, una figura che ha percorso trasversalmente tutto il Novecento.
Commedia della vanità, dramma scritto fra il 1933 e il 1934, è un’opera giovanile di Canetti – come d’altronde lo sono tutti i testi in cui l’autore si dedica alla scrittura creativa: tre drammi (Nozze, Commedia della vanità e Vite a scadenza) e un romanzo (Auto da fè), tutti concepiti a cavallo tra gli anni Venti e Trenta (solo Vite a scadenza è del 1952). Il resto della produzione di questo autore straordinario, nato nel 1905, ha infatti carattere saggistico, diaristico e aforistico. Sebbene non abbia ancora la costruzione mentale solida, lucida e precisa della grande opera della maturità, Commedia – come anche Nozze, che è quasi un’altra faccia della stessa medaglia – è una sorta di laboratorio in cui germinano tutte le problematiche che lo scrittore affronterà sistematicamente dentro la sua opera più ambiziosa: il saggio Massa e Potere, pubblicato venticinque anni più tardi. In una realtà distopica, ma così terribilmente vicina all’Europa degli anni Trenta come a quella attuale, un editto bandisce la produzione e riproduzione delle immagini e l’uso degli specchi; attraverso questo pretesto Canetti riflette sulla relazione tra il potere, la morte e il binomio identità-massa.
Nella sua versione integrale, il copione avrebbe dato luogo a uno spettacolo di circa sette ore. Abbiamo lavorato a una sorta di “riduzione in pianta”, senza intaccare la struttura drammaturgica, né trasporre o attualizzare la vicenda; l’unico grande intervento che abbiamo operato si riassume in una scelta di “drammaturgia seconda” – o si potrebbe dire di scrittura scenica. In maniera evidente, alcune figure del testo incarnano i possibili diversi stadi di evoluzione del potere: si tratta di Joseph Barloch, Joseph Garaus e Heinrich Föhn. Per esplicita indicazione dell’autore, la fisionomia dei primi due è identica; più di una scena del testo argomenta questo continuo atto di riconoscimento reciproco, istituendo il gioco dello specchio. Unendo suggestioni tratte da Massa e Potere a questa peculiare indicazione di Canetti, abbiamo condensato i tre personaggi affidandoli a uno stesso attore e creando così una sorta di figura trasversale che, come un grande burattinaio, indossa i panni ora di uno ora dell’altro, entrando e uscendo continuamente dal ruolo e serpeggiando all’interno di tutto il testo, animando anche gli altri personaggi e rendendoli emanazioni del potere stesso. Seguendo una logica speculare, sulle tre figure femminili di Anna Barloch, Louise e Leda Frisch, legate al trittico dei protagonisti, abbiamo operato lo stesso intervento, consegnandole a una sola attrice.
In un conturbante intreccio fatto di continui ribaltamenti dialettici, questa coppia di interpreti va a incarnare i diversi volti del potere, ricostruendone una sorta di diagramma evolutivo darwiniano. Barloch corrisponde a una fase primordiale e animalesca dell’autorità (spogliandosi e mangiando voracemente, pratica una forte ostensione del proprio corpo); l’accidia o frustrazione del potere è espressa da Garaus, che aspira ad essere il grande dittatore senza in fondo riuscire a dar vita alle proprie aspirazioni; Föhn è una sorta di incarnazione degenere del Superuomo nietzschiano. Intorno il proteiforme coro/massa di una comunità sull’orlo del collasso.
Non diversamente dal Gadda di Eros e Priapo, Canetti con Commedia fornisce una sorta di psicanalisi delle pulsioni erotiche che alimentano il culto del potere.
La psicoanalisi del potere, o la sua indagine storica, approda – però – in Commedia anche a una sorta di metafisica o teologia del potere. Barloch, Garaus e Föhn sembrano di fatto soggiogati da una sorta di potere altro. L’editto contro le immagini che apre il dramma giunge, in effetti, per volontà di autorità superne, mai nominate. È evidente, qui, il forte radicamento di Canetti nella cultura ebraica. Per raccontare ed esplorare questo anfratto di Commedia abbiamo dunque fatto ricorso alla musica giudaica: nello spettacolo la citazione del canto religioso del popolo eletto è praticata proprio per evocare quell’orizzonte mistico e metastorico su cui si staglia l’allegoria tutta storica del testo.
Traendo ispirazione da Lola Montès (il celeberrimo film di Max Ophüls), la cui vicenda è tutta ambientata in un circo, anche nella nostra Commedia della vanità la storia si dipana in una cornice circense: a partire da una potente suggestione contenuta nel primo monologo del dramma, il luogo deputato dello spettacolo ci è infatti subito parso un tendone ambulante scalcagnato. Nell’incipit del testo, il banditore Wenzel Wondrak si presenta agli occhi degli spettatori nelle vesti di un «pagliaccio». Le motivazioni di questa scelta circense sono tante. Proponendo al suo pubblico sequenze di azioni rischiose, il circo intrattiene un dialogo continuo con la morte – figura nevralgica nell’immaginario di Canetti. Il circo consente inoltre di dar sfogo al grottesco che cova nel testo, dando corpo allo spirito di ribaltamento carnevalesco proprio di questa drammaturgia così violentemente sinistra. Infine, a chiamare la dimensione circense è la struttura stessa della commedia, non di rado sviluppata per “numeri” in modo non diverso da un varietà. A voler essere precisi, sul piano drammaturgico Commedia della vanità ha una struttura composita e anfibia: la prima parte è una parade; la seconda si capovolge in uno straniato dramma borghese; la terza esplode in una convulsa pantomima espressionista che si declina come irridente parodia tragica.
Uno snodo nevralgico del pensiero teatrale canettiano emerge chiaramente in Commedia della vanità, quello della “maschera acustica”. Radicata in Canetti è l’idea che il carattere di un individuo si leghi visceralmente alla sua voce e all’articolazione del linguaggio che gli è propria. La maschera acustica non si risolve, in effetti, in una semplice voce, ma comporta una precisa cadenza di suono, una sintassi e un modo di costruzione della frase che – di fatto – fondano il personaggio. È evidente, in questo senso, l’influsso esercitato su Canetti da Karl Kraus, beffardo censore della Finis Austriae, operante come una sorta di “magnetofono” tutto teso a intercettare e amplificare le voci captate per strada, nei caffè, a teatro… Se la si legge da questo punto di vista, Commedia è a ben vedere una sapiente partitura musicale, giocata su una sofisticatissima alternanza di movimenti con punte di virtuosismo mozzafiato – come il vertiginoso concertato, degno del miglior Rossini, su cui si chiude la prima parte del testo. Coscienti del fatale tradimento indotto dalla traduzione dal tedesco, che inevitabilmente stravolge e riscrive le strutture sonore della drammaturgia originale, siamo comunque andati alla ricerca di questa partitura, inserendo anche le musiche come elemento costruttivo dello spettacolo proprio per il tipo di impasto acustico che generano. In particolare, nel pensare alle musiche si è scelto di lavorare sul repertorio del cymbalon – strumento tipicamente ungherese che arriva a Vienna e di lì irradia in tutto l’Impero (in fondo, patria dell’autore) – e su quello del violino, la cui grana sonora vibra inquietantemente all’unisono con la voce umana.
Battendo i sentieri della musica, appare chiaro come, al di là dell’impressione caotica generata dalla prima lettura, l’intreccio di Commedia si regga su una struttura complessa, cangiante e sfuggente, simile a quella di un diamante, le cui facce sono tagliate con precisione millimetrica. Rigorose geometrie speculari reggono lo sviluppo del testo, legando tra loro le scene in un sistema di couplets calibratissimo. Una sequenza risponde all’altra in un intricato labirinto di rimandi, creando continui rovesciamenti di punti di vista e di logiche. L’ambiguità, che nel testo aleggia sovrana, investe anche la riflessione sull’immagine, portandoci a ripensare il nostro oggi. Per un verso è evidente nel testo la critica alla rappresentazione come strumento di auto-riconoscimento, alla propensione umana a far dipendere la propria identità dalla rappresentazione del sé, con la quale, come ci spiega Föhn, ognuno di noi vive in stato «coniugale» fin dalla nascita. Ed è una critica aspra, quella di Canetti, che non può lasciare indifferente il nostro presente, regno assoluto e incondizionato del selfie. Eppure il testo, nella sua crociata iconoclasta, ci induce a riflettere pure su come le dinamiche rappresentative siano effettivamente costitutive della dimensione identitaria. L’astinenza da immagine induce al dissolvimento dell’io, ma questo dissolvimento esaspera, per converso, il bisogno di io – aprendo la strada a sbandamenti populistici e autoritaristico-dittatoriali. Nella parte finale della drammaturgia vanno in scena individui che, dopo anni di vessazioni e negazioni della rappresentazione, hanno perso la propria identità e che proprio per questo si dedicano all’erezione della statua di un nuovo dittatore. La costruzione dell’identità si è ormai trasformata in loro in un bisogno perverso.
Claudio Longhi
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