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DELITTO E CASTIGO
di Fëdor Dostoevskij
adattamento e regia Konstantin Bogomolov
Mosca, 1866: sulle pagine del «Messaggero Russo» Fëdor Michajlovič Dostoevskij, sopravvissuto a una condanna a morte per eversione e a cinque anni di prigionia, inizia la pubblicazione a puntate di Delitto e castigo. Sono passati oltre centocinquant’anni dall’uscita del romanzo, che narra dell'assassino Rodja riportato sulla via della salvezza dalla prostituta Sonja, e ancora le parole di Dostoevskij – e le loro riletture – continuano a turbare e sfidare con la stessa bruciante emergenza con cui avevano turbato e sfidato i lettori russi contemporanei all’autore. È una spiritualità tormentata, pervasa dal conflitto tra arbitrio dell'uomo e volontà divina, quella che abita le pagine dostoevskiane – perché innegabilmente l’immaginazione del già indomito alfiere del nichilismo del secondo Ottocento, poi ritrovatosi a capo della falange più conservatrice degli intellettuali russi del XIX secolo, è letteralmente ossessionata dal problema della fede. L’autore della straordinaria e lancinante parabola del Grande Inquisitore, ma anche colui che ebbe a scrivere che il cattolicesimo era peggiore dell’ateismo stesso, non seppe mai, per un verso o per l'altro, prescindere dal dialogo con la religione. Ed è l’aspro e violento confronto con la spiritualità, che innerva la scrittura irriducibilmente negativa di Dostoevskij facendolo uno dei campioni dell’inquietudine dell’uomo contemporaneo, a percorrere e ad illuminare la messa in scena del Delitto e castigo a firma di Konstantin Bogomolov. Un grande crocifisso che assiste impotente alla depravazione della società è al centro dello spettacolo. Un Cristo vilipeso e muto, che al tempo stesso è imprescindibile termine di confronto e forse di redenzione per l’uomo – chissà?
La realtà contemporanea è complessa e sfuggente, pare dirci Bogomolov, e non cessa di arrovellarsi intorno ad alcuni grandi interrogativi, negazione e superstite illusione di salvezza, fede e superstizione bigotta, imbestiamento ed esigenza di salvezza, arbitrio ragionevole/irragionevole dell'uomo e razionale volontà divina. Le tensioni tragiche che animano Delitto e castigo sono dunque solo a una prima scorsa distanti e inattuali. La sfida, sembra suggerirci Bogomolov da assiduo frequentatore in scena delle pagine dostoevskiane, è reimmergere nel nostro presente le inquietudini, gli aspri contrasti, i violenti cortocircuiti etici che sono del romanzo. Dostoevskij si interrogava sulla liceità o meno dell'uomo di perpetrare l'omicidio. Era in gioco la misura e il limite dell'azione umana. Qui il confine è misurato non più da un inconcludente e ormai attempato studente universitario, malamente sedotto dal canto delle sirene del nichilismo fino all'incontro/espiazione con la prostituta Sonja, ma da un immigrato africano indolente e ormai aduso a vivere il nichilismo della nostra attuale società, nella più disarmante assenza di ideologia.
Aderendo alla lettera del romanzo dostoevskiano pur nella sua apparente voglia di attualizzazione iconoclasta, la messa in scena di Bogomolov di Delitto e castigo è in fondo la vivente testimonianza della profonda vitalità e necessità delle parole di Dostoevskij – ancor oggi per noi scomode e toccanti, nella loro strenua dialettica con il divino.
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