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Sono trascorsi cento anni dal primo conflitto mondiale.
Io vorrei provare a toccare un piccolo punto di quell’immensa catastrofe, un solo corpo, quello di un qualsiasi soldato, anonimo, non appartenente a una precisa nazionalità, e toccare quel corpo nel luogo più emblematico di quella guerra, la trincea.
Vorrei tentare di essere laggiù, in quel punto di una trincea di molti anni fa, ed esserci prima di tutto fisicamente, come corpo, in una forma di mimesi totale, in modo da essere così immerso nella dimensione dell’orrore e della sua gratuità da percepire almeno per un istante “il tipo di esistenza” di quel soldato.
Per il soldato in trincea il tempo si assolutizza in un puro, denso presente, un tempo inceppato nella minuta quotidianità della sopravvivenza, fatto di gesti folli divenuti normali, di azioni compiute per inerzia, senza speranza di cambiamenti. La percezione del tempo, impedisce alla parola di farsi discorso, essa gira in un flusso vegetativo o semidormiente, si etilizza, ubriaca di terrore o di fame o comunque di mancanze. La narrazione non può più espletarsi in un flusso temporale continuo, lineare e accertato da un inizio e una fine, ma viene spezzata, impossibilitata a compiersi, gli improvvisi vuoti dell’anima non sono più ricomponibili né colmabili in parole, il vivere diviene un inarrestabile fluire di frammenti, come frammentato appare il Tempo per chi in ogni istante è sottoposto alla casualità di un morire inutile e atroce. L’individuo perde la coscienza della propria individualità, il singolo soldato diviene ingranaggio di una immensa fabbrica produttrice di morte, è un pezzo di ricambio, un pezzo di artiglieria fatto di carne umana.
La Prima guerra mondiale sperimenta su larga scala una forma di totale assoggettamento dell’uomo, la sua riduzione ad automa, fantoccio, cosa. È da qui, da quel momento storico, che si inaugura in occidente la possibilità di un controllo biopolitico del corpo umano, in forma industriale, di massa. Aprendo la strada ai tanti totalitarismi del terrore del nostro Novecento.
Marco Baliani
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