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E' con emozione e timore che ci si accosta a Giorni felici, uno dei maggiori testi
contemporanei che appartiene di diritto al canone del teatro del secolo breve.
In questa piece visione e scrittura sono tutt’uno e nella corrispondenza tra Beckett e
Alan Schneider, il suo regista di riferimento statunitense, scopriamo come l’uomo di libro,
il romanziere, poeta, saggista è fino in fondo uomo di scena attento ai dettagli dei
materiali scenografici, alle luci, e intensamente coinvolto nella misteriosa arte dell’attore
in un teatro che si offre come precisissima partitura per gli interpreti e sfugge alle riscritture delle regie “creative”.
Abbiamo dedicato una prima fase allo studio dello spartito senza ipotesi interpretative. Muoversi
nel rispetto del dettato dell’autore e, nei margini definiti di questa strada stretta, sintonizzare
i nostri strumenti di lavoro su una lunghezza d’onda tutta interna all’opera ci è sembrato un
approccio naturale. Ci siamo interrogati sui preziosi documenti costituiti dai quaderni di lavoro
del Beckett regista e sulle testimonianze dei suoi attori di riferimento, Jack Mac Gowran, David
Warrilow e più in particolare Billie Whitelaw che da lui è stata diretta proprio in questo lavoro nel
1979 (una versione con piccole ma significative varianti).
Giorni felici ha rappresentato per Beckett, dopo anni di volontario esilio linguistico, un ritorno
alla lingua madre, e ci è stato utile confrontare il testo inglese con la versione francese per
meglio aderire alla versione italiana di Fruttero.
Non si tratta di un atteggiamento filologico o di fedeltà all’autore ma della semplice necessità di una
comprensione profonda. Abbiamo incontrato il Maesto Jurij Alschitz per un confronto aperto
che ci ha schiuso nuove tecniche e metodi.
Solo in una seconda fase di lavoro abbiamo cercato di personalizzare il margine di libertà che
ci lasciava la partitura. Non è in contraddizione con quanto scritto sopra: un sorriso che cade,
tanto per fare un esempio, ha infinite declinazioni. Quando Beckett, in risposta a Schneider che
gli chiede suggerimenti riguardo il tono di una battuta del primo atto, risponde che il tono è la
questione, ci invita alla misura della sottigliezza e all’avventura della nuance. Abbiamo cercato
di non dimenticare mai che si tratta di un testo a due che richiede la tessitura di una relazione
continua tra Winnie e Willie. Il controcampo dalla parte di Willie sarebbe davvero una riscrittura,
un altro giorno felice con una sua autonomia che Beckett ci lascia solo intravedere, ma i suoi riflessi
sulla protagonista sono determinanti tanto che l’iniziativa nel memorabile finale passa tutta a Willie.
Sono numerosi all’interno del testo i riferimenti al mondo del teatro: «strana sensazione che
qualcuno mi stia guardando» dice la protagonista, interrogandosi anche sul parasole che ritorna
sempre nella stessa posizione, il campanello interpretabile anche come segnale del chi è di
scena, l’operetta come memoria condivisa della coppia Winnie e Willie, i vuoti di memoria e i
trucchi. Abbiamo messo in evidenza questa linea. I segni della scena che abbiamo scelto, una
collinetta e un paravento, si dichiarano in tutta la loro artificialità e i costumi e le luci, in filigrana,
rimandano al mondo dello spettacolo: spalline con pailletes e cilindro e scarpe bicolore, una
ribalta, un seguipersona.
Il resto è il tenace corpo a corpo tra Nicoletta Braschi e Winnie. Una sfida sull’asse della fragilità e
della resistenza, dei pieni e dei vuoti, della verbosità e del silenzio, del candore e della dolorosa
consapevolezza, della regola e della libertà, della dipendenza e della solitudine, del riso e del
pianto, dell’urlo e del canto, della grazia e del caso. Noi, stretti nel terreno come lei, facciamo
ricorso a tutte le nostre risorse, a tutte le benedizioni travestite, per intrattenerci a lungo e ancora
con la relazione vitale che più amiamo: il teatro.
Andrea Renzi
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