documenti collegati
La serata a Colono è uno dei poemi che compongono Il mondo salvato dai ragazzini. «Poema in forma di dramma» secondo la definizione dell’autrice.
Il libro fu scritto negli anni ’66 - ’67 del secolo scorso, e fu pubblicato da Einaudi nel maggio del 1968. (Che un libro di tale vitalità, alimentata da una rivolta disperata e inarrestabile; un libro inclassificabile come genere letterario; rivoluzionario nelle sue strutture formali e nei suoi contenuti; uscisse proprio nel maggio del 1968, è una stupefacente coincidenza).
Subito dopo l’uscita del libro, sia Eduardo De Filippo che Carmelo Bene pensarono di mettere in scena La serata a Colono. A un certo punto ne nacque un progetto cinematografico, che avrebbe messo insieme Eduardo come Edipo, e Bene come regista. Poi non se ne fece nulla.
Negli anni ’70 altri primi attori volevano recitarlo; fra questi Vittorio Gassman. Ma ormai Elsa s’era fatta restia a farlo rappresentare.
Anch’io in anni più recenti avevo deciso di metterlo in scena; per poi rinunciarvi, fermato dalle enormi difficoltà che presenta il testo, oltre alle quali, dovendolo affrontare nel doppio ruolo di regista e attore, si aggiungeva quella di dover recitare la parte lunghissima di un personaggio di difficilissima definizione e drammaturgicamente ambiguo.
Quando giravamo Morte di un matematico napoletano, con Mario Martone, grande ammiratore di La serata a Colono, c’eravamo promessi di farlo insieme, un giorno o l’altro.
Così, vent’anni dopo, quel giorno è arrivato e La serata a Colono va in scena per la prima volta, a quarantacinque anni da quando è stato scritto.
E oggi, in questo tempo plumbeo dove sulle nostre vite e sulle nostre scene regna sovrana l’apatia, non posso che ripensare con disperata nostalgia al tempo in cui Elsa Morante scrisse il suo grande «poema in forma di dramma».
Ho conosciuto Elsa nell’autunno del 1965, quindi a ridosso di La serata a Colono.
Un giorno stavo al teatrino di via Belsiana, un meraviglioso spazio teatrale nel centro di Roma, fra via Condotti e via Frattina, e stavo provando Woyzeck di Büchner. Suonò il telefono: era Elsa. Sentii quella sua bella voce cantante che sentivo per la prima volta: c’era un problema che riguardava il Living Theater, arrivato in Italia da pochi mesi, che sempre aveva dei problemi e che gli amici - Elsa ed io eravamo non solo grandi ammiratori di quel gruppo americano, ma ne eravamo diventati anche amici e supporters a vario titolo - dovevano aiutarli a risolvere. Mi chiese di andarla a trovare a casa sua il giorno dopo e mi domandò che cosa stessi facendo. Le risposi che stavo provando Woyzeck. Allora il suo entusiasmo si manifestò totale e incondizionato: amava enormemente Woyzeck «quell’umiliato e offeso» come lo definì; e subito collegò il testo di Büchner e la sua messa in scena a Artaud e al Teatro della Crudeltà. Io ero un lettore appassionato di Artaud a quei tempi: le prove di Woyzeck che facevo erano degli esperimenti legati alla lettura di Artaud. Così mi trovai d’accordo con lei; certo, di fronte alla categoricità di Elsa («solo il Teatro della Crudeltà»), la mia attrazione artaudiana si manifestò ben più timidamente.
Il giorno successivo andai a casa di Elsa: salii, come lei mi aveva detto, all’ultimo piano, che si raggiungeva a piedi, dove c’era il suo studio. Fui colpito dalla inaspettata bellezza di Elsa. Sembrava una donna di trentacinque anni. Si comportava con una naturalezza totale, come con qualcuno che conoscesse da molto tempo, starei per dire da sempre.
L’altra cosa che mi colpì, fu il contrasto fortissimo che c’era fra la veranda e lo studio attiguo. Entrando dalla veranda nello studio, era come abbandonare il giorno abbagliante e entrare nella notte e nell’oscurità. Come la veranda era aperta alla luce, ai colori, ai tetti, alle cupole e ai campanili di Roma, così lo studio attiguo era come un nido nascosto, isoltato dal mondo, notturno. Era in questo studio che Elsa scriveva.
«E da lui, o amici, che mi vengono tutti i miei mali». Edipo Re
«Verso sera, in un dolce tiepido novembre, intorno all’anno 1960; nell’interno del Policlinico di una città Sud europea, in un corridoio attiguo al reparto neurodeliri».
Così comincia La serata a Colono.
Le voci dei ricoverati risuonano oltre la parete del corridoio: è il Coro.
Di lì a poco arriva una barella, dove, legato dalle cinghie di contenzione e con la fronte e gli occhi avvolti in garze, è disteso un vecchio che dorme «un sonno morboso e quasi impudico».
Dietro la barella si affretta una «ragazzina selvatica e tremante sui quattordici anni», che risulta essere sua figlia.
La prima parte è una sorta di prologo dove, attraverso la lettura della cartella clinica da parte di uno dei guardiani, e il lungo racconto che fa la ragazzina, si danno le notizie relative al vecchio addormentato disteso sulla barella. È un piccolo proprietario benestante dell’Italia meridionale, delirante paranoide, alcolizzato e «sospetto ricorso narcotici».
Dal risveglio del vecchio, che comincia con una serie di invettive contro il sole, il suo delirio che si struttura nell’identificazione con Re Edipo, invade progressivamente la scena: i personaggi della «realtà» ospedaliera (guardiani, dottore, suora), perdono le loro individualità e funzioni proprie per trasformarsi nelle figure delle visioni allucinate di Edipo. Da questo momento in poi, seguendo erraticamente l’andamento narrativo e drammatico della tragedia di riferimento, Edipo a Colono, il testo e la rappresentazione di esso sarà un viaggio precipitato in una dimensione allucinata, dove, oltre al mito di Edipo e alla tragedia sofoclea, risuonano altri echi e richiami culturali: la filosofia indiana, Hölderlin, la mistica Sufi, i poeti della Beat Generation.
Anche il coro dei matti, col procedere del dramma, abbandona via via la sua autonomia di ripetitori meccanici delle loro proprie individuali ossessioni e, diventerà l’eco allucinatoria e l’interlocutore parodistico di Edipo.
Solo la ragazzina - chiamata dal padre Antigone - non entra mai nello spazio allucinato. Lei infatti rappresenta l’antitesti del padre: se il padre è quello che ha letto «tuttilibri» quello, che ha preteso di diventare Re Edipo, di diventare simile all’Essere per amore del quale, e spinto dal quale, tutto il suo viaggio attraverso nascite e forme innumerevoli, è stato compiuto, fino alla catastrofe finale, la ragazzina che lui chiama Antigone ha la grazia, l’innocenza e la pietà della saggezza naturale. «Antigone nel corso del dialogo deve dire gli enigmi della sfinge senza che Edipo se ne accorga. Antigone deve senza sapere smentire Edipo nel senso che la vita ogni giorno col suo mistero è al tempo stesso simbolo del suo mistero e l’uomo non se ne accorge perché il suo destino è questo cioè cecità, sordità», scrive Elsa Morante in un appunto del 14 maggio 1966 durante la scrittura di Serata a Colono.
Per questo non può essere che estranea alla dimensione allucinata del padre; lei lo accompagna con amore e grande pietà; gli descrive, inventandoli, situazioni e luoghi infantili e giocosi che negano sia la lugubre «realtà» ospedaliera sia le visioni incontrollabili di orrore nelle quali precipita il padre. Ha la grazia e l’innocenza di quegli analfabeti per i quali - come dice la dedica messa a epigrafe di La Storia - quel romanzo fu scritto.
Il personaggio che si crede Edipo, il vecchio meridionale affetto da sindrome paranoica, ripercorre le tappe di un’esperienza estrema, di un viaggio allucinato che, se da una parte gli permette di vedere «cose nascoste alla innocente salute», dall’altra lo riporta ossessivamente alla vicenda mitica nella quale si identifica, i cui temi principali sono la persecuzione di LUI («Febo, o Ra o Iaveh o Coatl o qualsiasi altro voglia essere quel nome»), la colpa tragica dell’eroe e il disperato desiderio di riposo e di oblio.
Anche se, qua e là, brandelli della vita del personaggio del piccolo proprietario meridionale si affacciano, spesso in funzione parodistica, la parte di Edipo nel suo insieme si muove su un registro ambiguo, il personaggio e l’autore si confondono in una sola voce. Perché anche l’autore si è riconosciuto, attraverso un’esperienza estrema, in Edipo Re. Il dramma è dunque il documento di una doppia identificazione allucinata, che viene rappresentata come delirio persecutorio e autopunitivo.
Così invece di scrivere un poema simile alle altre composizioni, che fanno parte della seconda sezione de Il mondo salvato dai ragazzini, Elsa trasforma il poema in dramma. Un dramma, quindi, dei personaggi: il vecchio pazzo che si crede Re Edipo; quello della figlia adolescente da lui creduta Antigone; un luogo, il corridoio del reparto neurodeliri del Policlinico di una città sudeuroepea come Roma, Napoli, Palermo o più verosimilmente una sintesi di tutte e tre; con i guardiani, la suora, il dottore, ecc.
Ma il poema non viene dissolto del tutto nel dramma; ne sono testimoni la lingua di Edipo, di una letterarietà provocatoria, e anche la presenza dei due lunghi soliloqui, o melologhi, di Edipo, che sembrano due poemi incastonati nello svolgimento del dramma.
Edipo non è una parte semplice da recitare: è una parte di eccezionale lunghezza, nel cui svolgimento non c’è un filo che si possa seguire «com’è uso nelle scritture della logica sintattica». Inoltre stare legato alla barella, con gli occhi bendati per un’ora e mezzo, è una condizione «crudele» per un attore. La parte impone un’intensità e una concentrazione eccezionali; sono richiesti diversi registri e forme della rappresentazione: si passa dalla recitazione tragica al recitativo arioso, dal melologo al canto lirico. Ma questa varietà di cifre stilitistiche è appassionante per un attore: la sua recita è più vicina a quella del performer che a quella dell’interprete comune.
Carlo Cecchi
News
-
Visita spettacolo al Teatro India
-
Il compratore di anime morte
-
“L’eco der core” Roma com’era, Roma com’è nei testi e nelle canzoni di Roma
-
Visita spettacolo al Teatro India
-
Una giornata fatale del danzatore Gregorio Samsa
-
Roma in versi
-
È nato il nuovo canale Instagram della Fondazione Teatro di Roma!
-
Teatro di Roma, nominato il nuovo Consiglio di Amministrazione
-
Il Teatro di Roma diventa Fondazione
-
Carta Giovani Nazionale
-
Art Bonus - Sostieni il tuo teatro!