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regia Massimo Castri
scene e costumi Maurizio Balò
con (in ordine di apparizione)
Antonio Giuseppe Peligra, Corinne Castelli, Paolo Calabresi, Ilaria Genatiempo, Davide Palla, Mauro Malinverno, Milutin Dapcevic, Miro Landoni, Vincenzo Giordano
luci Gigi Saccomandi
musiche Arturo Annecchino
suono Franco Visioli
aiuto regista Marco Plini
assistente alla regia Thea Dellavalle
assistente alle scene Antonio Cavallo
Teatro di Roma
orari spettacolo
martedì, mercoledì, venerdì, sabato ore 21.00
giovedì, domenica ore 17.00
lunedì riposo
Tutto ciò che Pier Paolo Pasolini ha scritto per il teatro è un blocco unico che, per il suo peso nel '900 post-pirandelliano, rappresenta un piccolo patrimonio raro nel vuoto del dopo Pirandello, un patrimonio da leggere e da decifrare.
Prima del '66 Pasolini si era dedicato quasi esclusivamente al cinema; poi, costretto a letto da una malattia, scrive tutto il suo teatro: sei tragedie, in un solo anno.
"Nel '66 ho avuto l'unica malattia della mia vita: un'ulcera abbastanza grave, che mi ha tenuto a letto per un mese. Durante la convalescenza ho letto Platone ed è stato questo che mi ha spinto a desiderare di scrivere attraverso personaggi. Ho iniziato e completato le tragedie in un anno. Soltanto che non le ho finite. Non ho finito di limarle, correggerle, tutto quello che si fa su una prima stesura".
Dalla lettura della biografia emerge che Pasolini non ha mai voluto affrontare veramente la propria disperazione, le proprie ansie, le proprie disarmonie (o se vogliamo contraddizioni e fantasmi non risolti), ma ha preferito dilatarle nel mondo, trovare palcoscenici sempre più grandi su cui rappresentarle e simbolizzarle (e celarle), allargando continuamente l'orizzonte di riferimento sia disciplinare, sia geografico. Le contraddizioni del mondo hanno preso il posto delle sue personali contraddizioni, cosicché lui si è potuto impadronire di tutto: politica/mito/ideologia/religione (tutto attraversato dall'eros) con il risultato però di non aver mai risolto se stesso.
Il '66 è una prima rottura evidente in questa sua politica di sopravvivenza... non funziona più.
Dopo il '66 questo movimento espansivo e inglobante si trasforma in rifiuto del neo-capitalismo e quindi Pasolini non sa più dove allargarsi, cosa inglobare nelle proprie contraddizioni.
Questo suo comportamento ‘trasversale' spiega quel timbro, quel suono di falso/vero che la sua scrittura quasi sempre possiede.
Analizzando Affabulazione, Pilade e Porcile ci si accorge che in Pilade il linguaggio è limpido, chiaro; il travestimento dell'antica tragedia, quasi naif, ha un suo fascino e una sua forza di fiaba e prepara in qualche modo Porcile. Pilade non appartiene a nessuno, così come il figlio di Affabulazione che non vuole lottare con il Padre. C'è un filo che lega Affabulazione, Pilade e Porcile, ma il protagonista di Porcile, che non parla, non dice, è il più compiuto. Julian è diverso perché non appartiene, perché non sa chi è... e non può riconoscersi.
Porcile è un'opera semplice, una fabula in cui anche la doppiezza è semplice e chiara. La storia di un ragazzo che non può/non vuole prendere parte, è altro, è diverso, non coincide con nessun ruolo o parte.
Cosa vuol dire Porcile?... tante cose... ma anche la semplicità estrema del gesto di Julian... semplice e oscuro: Julian realizza compiutamente l'eros di Pasolini, quello del corpi senz'anima.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù.
La storia di Julian è reale e insieme metafora-travestimento della storia di Pasolini (la sua storia vera), è così eccessiva che diventa fiabesca, travestimento infantile, non la si prende sul serio perché è oltre, è nel bosco, dove c'è il Lupo Cattivo e l'Orco. È paura infantile.
La storia di Julian è soprattutto una storia di regressione all'infanzia, un ritorno alla fiaba dell'Orco e del Lupo Cattivo. È anche il ritorno all'indistinto: Julian va nel mondo, ma torna indietro alla casa, ai luoghi dell'infanzia e della pubertà. Però quando torna è inconoscibile, liquido (come vorrebbe o si sente Pasolini), è questo e il suo contrario, o meglio, è diventato una cosa sola: come un santo, come uno stilita.
Solo come fiaba nera e triste Porcile può dispiegare il suo ‘peso di senso', può implodere nella testa di chi guarda e ascolta: non deve esplodere e scandalizzare ma implodere e inquietare e ricordare.
Massimo Castri
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