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C'era molta attesa la sera del 26 settembre 1971 alla Fenice per La pace di Aristofane. Quello che era stato invitato al XXX Festival della prosa di Venezia era, infatti, uno spettacolo storico, in repertorio al Deutsches Theater di Berlino est ormai dal 1962, da quando, cioè, in piena guerra fredda, Benno Besson si era rivolto al commediografo classico per esorcizzare la minaccia di un conflitto nucleare: la commedia di Aristofane era stata trasformata in un musical, con un sassofono jazz, che ricordava il Kurt Weil di brechtiana memoria, mentre lo scarabeo stercorario, a cavallo del quale Trigeo ascende all'Olimpo per impetrare la pace, era realizzato con un animale di ferro appeso a quattro corde, che si librava sul palcoscenico. Come accadde anche con Il drago di Schwarz, altra storica messinscena di Besson, il teatro si era trasformato in una grande metafora del mondo e, in barba alla censura, gli spettatori accorrevano in massa, chiamati a riflettere sulla condizione del presente. E' questa la funzione del teatro, questa la funzione della satira nell'Atene del V secolo così come nell'Italia di oggi: guardare alla società con lo sguardo deformante dell'ironia, per coglierne vizi e difetti, risaltarne le deformazioni, denunciare gli abusi del potere.
Non era quello che oggi si direbbe un progressista Aristofane, semmai un conservatore, che guardava con sospetto alle novità, anche di pensiero, fosse pure Socrate a rappresentarle. Nutriva diffidenza nei confronti del grande filosofo, ne riprovava l'influsso sulla gioventù, spronata a un'indipendenza di giudizio, che gli appariva nefasta, ne lamentava la frequentazione con personaggi in sospetto di tirannide, come Crizia e Alcibiade, ma è lecito dubitare che ne abbia approvato la condanna a morte e, soprattutto, ci è consentito immaginare che dinanzi alla sua fine ne abbia riconosciuto la dirittura morale. Aristofane era, infatti, un conservatore, ma, non meno del filosofo, sollecito del bene comune, e, dunque, in grado di apprezzare la testimonianza di dignità estrema, lasciata da Socrate con la sua morte: in modo diverso, entrambi avevano avvertito il declino della loro città e cercato di contrastarlo. Aristofane, del resto, era uomo di vasta e raffinata cultura, capace di permettersi la volgarità senza essere volgare.
Sin qui la realtà storica, accertata o desunta. Ma c'è un altro piano, quello metaforico, per cui le commedie di Aristofane, non meno delle tragedie classiche, ci appaiono ancora oggi rappresentare debolezze e virtù, paure e speranze tutte umane. Spogliato del contesto storico, messo da parte Socrate e la sua assimilazione, vera o presunta, ai sofisti, resta la condanna della manipolazione della verità, la satira delle arzigogolature linguistiche, dei ragionamenti sofistici, delle argomentazioni pretestuose, la denuncia dell'inclinazione al discorso truffaldino, la sopraffazione verbale come unica legge, capace di sovvertire il diritto basato sul patrimonio del comune buon senso. In breve, la critica all'affermazione della menzogna a scapito della verità. Bisogna interrogarli i classici perché tornino a parlarci, per confrontare il volto nostro di ieri con la faccia di oggi.
Alessandro Tinterri
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